Carter Nick : другие произведения.

Segretissimo 0354 Nick Carter E L’oro Del Reno

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SEGRETISSIMO


DIRETTORE RESPONSABILE:


Laura Grimaldi



Periodico settimanale

n. 354 – 10 settembre 1970



Nick Carter

E l’oro del Reno



Titolo originale:

Berlin

Traduzione di Moma Carones

Copertina di Carlo Jacono

No 1969 by Universal Publishing and



Distributing Corporation

No1970 by Arnoldo Mondadori Editore



Nick «Sterminio» è il superagente che la super-agenzia AXE usa nei momen-

ti «di brutta». Per questo, da bravo cor iere dello spionaggio, Nick percor e

in lungo e in largo praticamente tutto il mondo.

È' appena stato ad Amsterdam per una storia di diamanti e di tradimento, e

già lo spediscono in Germania, sul magico Reno. Ma sul Reno, è ormai risa-

puto, possono succederne di tutti i colori. È' una sorta di maledizione,

scaturita dalla leggenda

e perpetuata dalla storia.

Prima di tutto, salta in aria un battello che sembrava scivolare tranquillo,

«turisticamente», sulle acque del fiume.

E Nick deve fare un tuf o imprevisto, nel tentativo di salvare il suo «contat-

to» in Germania, che viaggiava appunto a bordo del battello. Ma non sarebbe

lui se, invece del collega, non tirasse a riva una stupenda ragazza bionda.

Da una ragazza bionda pescata dal Reno a una marea di guai a non finire il

passo non può essere che breve.

Ma lasciate fare a Nick. Lui se ne intende, di bionde, di guai e di soluzioni

improvvise.





1



Nick Carter

Nick Carter e l’oro del Reno

(Berlin 1969)





Personaggi principali:





HUGO SCHMIDT


NICK CARTER, alias NUMERO





cugino di Helga


TRE detto «STERMINIO»





KLAUS JUNGMANN


agente dell'AXE


agente dell'AXE a Berlino-Est

DAVID HAWK





HEINRICH DREISSIG


capo dell'AXE


capo di un movimento neo-nazista

HELGA RUTEN

ABDUL BEN MUSSAF

ragazza tedesca

ricco arabo

LISA HUFFMANN

HOWIE PRAILLER





amica occasionale di Nick


agente dell'AXE a Berlino-Ovest





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Aspettare non è mai stato il mio forte. Pare che sia una caratteristica

degli uomini d'azione, questa insofferenza per l'attesa passiva. Ed io

non sono affatto un tipo imbalsamato. Oh, mi è accaduto di starme-

ne immobile per ore e ore con l'intento di beccare la persona sulla

quale volevo mettere le mani. Ma questa è una cosa diversa. Quan-

do ci si apposta, in un certo senso si è già entrati in azione, sia pure

soltanto con i nervi e il cervello. Ma adesso non stavo in agguato.

Ero soltanto inattivo temporaneamente, a causa di un guasto alla

macchina, e fremevo perché avevo fretta.

La vallata centrale del Reno è senz'altro un posto felice, ricco

e lussureggiante. Le colline sono verdi e sui pendii verso il fiume si

vede una quantità di fiori giallo-oro, rosa e violetti, che risaltano sul

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fondo smeraldino. La strada tortuosa mostra qualcosa di nuovo e

interessante ad ogni curva.

Piccole fattorie che sembrano uscite da un libro di fiabe dei

fratelli Grimm, e di tanto in tanto la classica casetta di "panpepato".

E poi i castelli imponenti su entrambe le sponde del Reno, i famosi

"Schlosses" dei Cavalieri Teutonici del Medioevo. Sono proprio

"wunderbar", niente da dire, e fanno colpo, specie sui turisti. Le

ragazze dal fisico prospero e appetitoso sono cordialissime, tanto da

sembrar disposte ad accontentare subito ogni desiderio maschile.

Forse la dieta ricca di "würst" ha lasciato tracce un po' evidenti sulle

loro figure. Io però mi sorpresi di non aver abbastanza tempo dispo-

nibile per indagare un po' meglio.

Appunto perché l'insieme è così opulento e degno di conside-

razione avrei voluto trattenermi, ma avevo fretta di prendere il

battello. E adesso per giunta quella dannata Opel si era guastata; io

fumavo d'impazienza e non ero nello stato d'animo più adatto a

godermi il paesaggio. Tanto più che il Capo non sarebbe stato molto

contento di me, se arrivavo in ritardo.

Grazie alla mia conoscenza perfetta del tedesco, riuscii a fer-

mare un motociclista di passaggio e a spiegargli che mi trovavo in

difficoltà. Lo pregai di fermarsi all'officina di riparazioni più pros-

sima avvertendo che avevo urgente bisogno di assistenza.

Ebbi modo così, durante l'attesa, di godermi il panorama. Il

Reno scorreva ai miei piedi. A nord scorsi il tetto e il campanile del-

la chiesa di Marksburg. Ancora oltre, e per adesso non visibile, c'era

Coblenza. Là avrei dovuto prendere il famoso battello da crociera,

l'"Ausflugschiffe" che percorreva il fiume. Ma visto che non ce l'a-

vrei fatta a giungere a Coblenza in tempo, ad un certo punto

desistetti maledicendo l'uomo che mi aveva dato la Opel a nolo,

aprii le portiere per far passare un po' d'aria e ripensai a quanto m'e-

ro divertito a Lucerna sino a quella stessa mattina.

Dopo aver partecipato alla missione Martinica-Montreal, me

n'ero andato in vacanza in Svizzera e avevo fatto visita al mio ami-

co Charley Treadwell, che possedeva uno chalet nei dintorni di

Lucerna. Il soggiorno era risultato piacevolissimo, e durante una

festicciola in casa sua avevo conosciuto Anne-Marie, una svizzera

francese assai bella e vivace che sciava in modo orrendo ma era un

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sogno tra le coltri. Io feci del mio meglio per indurla a preferire il

mio lenzuolo a quello nevoso, e ci riuscii.

Al solito però, pur essendo in regolare vacanza, m'era toccato

comunicare a Hawk il mio recapito e il mio numero di telefono. Il

vecchio doveva essere sempre in grado di pescarmi ovunque, nel

caso che si fosse presentata un'emergenza. Il miglior sistema – co-

me avevo imparato a mie spese da un pezzo – per fregarmi e

impedirmi sempre di riposare. Nonché di spassarmela.

Mi accadde pure a Lucerna con Anne-Marie. Erano le sei del

mattino quando udii il trillo e schizzai fuori dal letto. Mentre affer-

ravo il ricevitore mi pervenne la voce asciutta di Hawk e guardai

con rimpianto la bella creatura che ben presto avrei dovuto abban-

donare. Dormiva, beata lei.

— Qui è l'Amalgamated Preys & Wire Services — disse il

vecchio. Solito inizio convenzionale che usava con tutti i suoi agen-

ti. — Siete voi, Nick?

— Proprio io — risposi in tono rassegnato. — Qual buon ven-

to?

— Non siete solo — ribatté subito. Il volpone mi conosceva

bene, anche troppo, e pareva che ci prendesse gusto a rompermi le

uova nel paniere. — E' molto vicina?

— Sì.

Mi parve di vederlo aggrottare la fronte.

— E' in grado di ascoltare?

— Lo sarebbe se non fosse addormentata.

— Bene. Ho un incarico da affidarvi, e poiché si tratta di una

faccenda molto privata... Uno dei nostri fotografi, Ted Dennison, ha

qualcosa di grosso da passarci. Una volta avete lavorato con Denni-

son, vero?

— Sì, lo conosco — risposi. Ted era uno dei migliori sulla

scena europea, e qualche anno prima ci era capitato di collaborare in

una missione. Ricordavo che era in gambissima nello scovar noti-

zie.

— Dovete incontrarvi con lui sul battello da crociera tedesco

che farà una fermata a Coblenza oggi nel pomeriggio, alle tre e

mezza. Poiché si tratta di roba assai importante, se per caso non

faceste in tempo a raggiungere Coblenza per quell'ora, procedete in

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auto sino alla prossima fermata, quella di Mainz. Il battello arriverà

là alle cinque.

Udii il clic del ricevitore che veniva attaccato, sospirai e guar-

dai Anne-Marie. Non batté ciglio. In quelle quattro splendide

giornate che avevo trascorso con lei l'avevo conosciuta bene. Se

sciava andava forte. Se beveva ci dava dentro. Se faceva all'amore

si abbandonava tutta, e se dormiva era peggio d'un ghiro. Non si po-

teva definire un tipo moderato, faceva tutto a fondo.

Mi vestii, le lasciai un bigliettino d'addio debitamente accora-

to e mi tuffai nella luce fredda e livida dell'alba. Certo Anne-Marie

non avrebbe avuto un infarto a causa della mia partenza improvvisa.

In fondo c'era Charley, sempre pronto a consolarla.

Presi un aereo per Francoforte, poi procedetti in macchina

verso il Reno ricco di ricordi gloriosi.

Ed ora eccomi qui, sullo stesso suolo che Cesare, Attila, Car-

lomagno e Napoleone avevano calpestato, per tacere degli eserciti

più recenti e moderni, intento ad imprecare contro chi m'aveva no-

leggiato una macchina scassatissima.

Ad un certo punto smontai di nuovo, deciso a fermare qualcun

altro. Ma ecco che vidi spuntare il furgone che attendevo. Il mecca-

nico era giovane, aveva la faccia tonda e i capelli scuri. Aveva pure

dei modi cortesi; esaminò la Opel con teutonica pignoleria, del che

gli fui grato, e con teutonica lentezza, a tal punto dall'aver voglia di

scrollarlo.

Capì subito dal mio abbigliamento che non ero tedesco, e

quando gli dissi che ero americano cercò di spiegarmi bene in ingle-

se le cause del guasto. Era così concentrato in quel nuovo compito

di erklaren da rallentare un altro poco la riparazione. Infine riuscii a

convincerlo che il mio tedesco era ottimo e che tutte quelle spiega-

zioni non erano indispensabili. Si sentì comunque in dovere di

annunciarmi che il difetto stava nel Vergasser, e cioè nel carburato-

re. Mentre ne inseriva uno nuovo lo fissai stringendo i denti.

Proprio in quell'istante vidi passare il battello sul Reno.

Quando terminò il lavoro l'"Ausflugschiffe" era ormai scom-

parso. Lo pagai in dollari e mi parve soddisfatto. Poi balzai al

volante con l'aria di pilotare una Ferrari da corsa. Il povero catorcio

ce la mise tutta e imboccò le curve in discesa con un certo aplomb.

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Man mano che mi avvicinavo al fiume ebbi di tanto in tanto la

visione fugace del battello che filava tranquillo sull'acqua tranquilla.

Raggiunsi il lungofiume e ad un certo punto mi trovai quasi paralle-

lo all'imbarcazione. Smisi perciò di sottoporre la mia caffettiera a

sforzi eccessivi e rallentai un po'. Ormai ero sicuro che sarei arriva-

to a Coblenza in tempo per salire a bordo. Tirai un sospirone di

sollievo e pensai a Dennison con un pochino di invidia. Lui almeno

si stava godendo la gita e il sole, mentre io m'ero scapicollato sin

dall'alba per raggiungerlo.

Lanciai un'altra occhiata al battello lungo e basso, con un'uni-

ca sovrastruttura al centro, in modo da lasciar libero il ponte per i

passeggeri che volevano godersi la vista. Notai infatti un mucchio

di gente affacciata ai parapetti.

Accadde all'improvviso, proprio davanti ai miei occhi. Una

cosa talmente inattesa e pazzesca da apparire irreale. Un po' come

guardare una pellicola al rallentatore.

Prima si verificarono due esplosioni. Una breve, seguita da un

gran boato dovuto allo scoppio della Caldaia. Ma non furono le

esplosioni ad impressionarmi, quanto la vista del cassero che volava

in aria e si spaccava in due. Poi il battello stesso cominciò a sfa-

sciarsi, e una gran quantità di passeggeri volò nel fiume.

Frenai di colpo accanto alla sponda. Quando balzai giù dalla

Opel, i frammenti stavano ancora piovendo nel Reno, e il battello

ormai era scomparso. Si scorgeva solo una parte della prua che si

inabissava in fretta. Sembrava che una mano gigantesca avesse but-

tato in acqua una manciata di detriti e di pupazzetti minuscoli. Mi

colpì il silenzio pauroso che seguì, dopo quel frastuono assordante.

Salvo ogni tanto il sibilo del vapore e qualche lamento lontano, il

silenzio era totale e riempiva d'angoscia.

Mi svestii in fretta, tenendo solo gli slips per un minimo di

decenza, e cacciai la mia roba in macchina, compresa la Luger Wil-

helmina e lo stiletto Hugo, che avvoltolai nei calzoni. Poi mi tuffai

nel Reno e nuotai in direzione del battello scomparso. Sapevo che ci

sarebbero stati ben pochi superstiti, purtroppo, ma forse avrei avuto

la possibilità di aiutare qualcuno o di salvare una vita. Immaginavo

che dalla terraferma qualche spettatore avrebbe chiamato subito po-

lizia e ambulanze.

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Ero attorniato da mille frammenti di legno, la sola cosa che

ancora galleggiasse. Ad un certo punto notai un braccio che affiora-

va dall'acqua. Qualcuno tentava di nuotare. Raggiunsi a bracciate

vigorose una testa bionda. Vidi che si trattava di una donna, una

bella ragazza dagli occhi azzurri vitrei e terrorizzati. Le girai un

braccio attorno alla nuca e me la trascinai verso la sponda lenta-

mente. La sentii rilassarsi subito, fiduciosa o sfinita. Mi parve

dall'espressione degli occhi, o meglio dalla mancanza di espressio-

ne, che fosse in preda a un forte choc.

In quel punto il Reno aveva una corrente forte e insidiosa, e

senza volerlo nuotando mi allontanai di duecento metri circa dalla

località in cui avevo parcheggiato la macchina. Così quando deposi-

tai la ragazza sulla riva mi guardai intorno perplesso. Aveva un

abituccio di cotone stampato che le si appiccicava al corpo rivelan-

do una figura piena, dal petto generoso e un poco pesante. La faccia

era molto tedesca, tipica, con la carnagione chiara, capelli biondi e

occhi azzurri, naso un po' all'insù. Le pupille erano ancora vaghe,

fuori dalla realtà, ma notai che cominciava a riprendersi a poco a

poco. Mi pervenne in distanza un ululato di sirene e il vocio delle

persone che accorrevano verso la sponda e commentavano l'ac-

caduto. Il seno della ragazza cominciò a sollevarsi ed abbassarsi

ritmicamente, e il suo respiro divenne più regolare. Intanto alcune

barche venivano calate in acqua per la ricerca dei superstiti. Non mi

feci illusioni. Non dovevano essersela cavata in molti. Era stata una

cosa tremenda. Rividi ancora con un brivido quel cassero che vola-

va in aria e si spezzava in due, spinto da una forza di propulsione

così potente da ricordare un lancio di missili da Capo Kennedy. Che

diavolo era successo a quel battello?

La ragazza si mosse ed io l'aiutai a mettersi seduta. Aveva an-

cora l'abitino appiccicato alla pelle, ma lo sguardo si era fatto meno

vitreo. Immaginai che ricordava l'accaduto quando la vidi scossa da

un brivido di orrore. Capii che la paura retrospettiva adesso si sa-

rebbe impossessata di lei e ancora una volta le girai un braccio

attorno alle spalle per confortarla e farle capire che ormai il peggio

era passato. Lei continuò per un pezzo a tremare e a singhiozzare.

Mormorai:

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— Nein, Fräulein. Kein mehr, schreien Sie nicht. Alles ist

über.

Lei mi si aggrappò al collo, sempre piangendo, e la lasciai

sfogare. Infine parve calmarsi e riprendere un certo controllo. Si

ritrasse e mi guardò.

— Mi avete salvato la vita. Vi sono molto grata — disse.

— Oh, forse sareste riuscita lo stesso ad arrivare fin qui — le

risposi.

— Eravate sul battello anche voi? — mi domandò.

— No, cara. Guidavo la macchina sul lungofiume quando si è

verificata l'esplosione. Anzi, stavo andando a Coblenza proprio per

salire a bordo. Dovevo incontrarmi con un amico. Mi sono tuffato

per vedere se potevo far qualcosa, ho visto che tentavate di nuotare

e vi ho aiutato a raggiungere la sponda. Chissà che fine avrà fatto il

mio amico... Dovrò informarmi subito.

Lei si guardò intorno, e ancora una volta le vidi quell'espres-

sione di orrore negli occhi quando fissò il fiume pieno di frammenti

galleggianti. Guardò anche la sponda e rabbrividì quando un soffio

di brezza le appiccicò ancor di più il vestito alla pelle, mettendo in

mostra tutte le sue curve generose. Notò che, mio malgrado, stavo

facendo l'inventario di quelle curve e abbozzò un'ombra di sorriso.

— Mi chiamo Helga — disse. — Helga Ruten.

— E io sono Nick Carter. .

— Come, non siete tedesco? — mi domandò stupita. — Parla-

te così bene la mia lingua...

— Americano. Ditemi, Helga, c'era qualcuno a bordo con voi?

— No, ero sola, per fortuna. Era una bella giornata, così ho

deciso di fare una gita sul fiume.

Mi osservò anche lei con attenzione, come avevo fatto io.

Studiò il mio fisico, atletico e in piena forma come sempre, e l'esa-

me si protrasse per un po'. Infine vidi che anche lei approvava ciò

che vedeva. Glielo lessi negli occhi, che di proposito si distolsero

dalla scena del disastro per tenersi aggrappati a quel qualcosa di

vivo che ero io. Vidi che piano piano si riprendeva. I suoi occhi

divennero più limpidi, la voce meno tremula e più controllata. Ogni

tanto era ancora scossa da brividi, ma si trattava più che altro di

freddo.

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— Dite che avete una macchina? — mi domandò infine. As-

sentii e indicai con un braccio il punto in cui l'avevo parcheggiata,

un po' più indietro.

— Ho uno zio che abita da queste parti — mi spiegò. — Stavo

appunto ammirando la sua proprietà dal parapetto quando si è veri-

ficata l'esplosione. So dove tiene la chiave di solito. Se volete,

potremmo andare ad asciugarci e a rimetterci un po' in sesto.

— Per me va benissimo — risposi, e l'aiutai a rialzarsi. Bar-

collò e mi cadde addosso. A dispetto della situazione e del momento

poco felice, il contatto di quei seni contro la pelle mi diede un certo

senso di eccitazione. Sono un uomo, dopo tutto! E lei era appetitosa,

e tanta.

Bene o male arrivammo sino alla macchina. Io trasferii il fa-

gotto con i miei indumenti sul sedile posteriore e invitai Helga a

sedersi al mio fianco. Diedi ancora un'occhiata ai soccorritori che

adesso affollavano il fiume. Mi domandai di nuovo quante persone

si erano salvate in quella paurosa ecatombe. La cosa era accaduta

con tanta rapidità che nessuno poteva aver avuto una premonizione

del disastro. E Ted Dennison? Era vivo? Improbabile. Vero che

Helga ce l'aveva fatta, e poteva darsi che... Avrei controllato alla

polizia e presso gli ospedali non appena avessi avuto un apparec-

chio disponibile, poi mi sarei messo in contatto con Hawk. Povero

Ted, se ci aveva rimesso la pelle sarebbe stato il colmo. Trascorrere

l'esistenza in mezzo a mille pericoli e agguati e poi morire a causa

dell'esplosione di una caldaia...

Helga ora tremava di freddo più che mai; tese un dito malfer-

mo in direzione di un antico castello che si ergeva maestoso tra i

monti, non troppo lontano.

— Girate alla prima laterale, poi imboccate la stradina in fon-

do. Si chiama: "Zauber Gässchen" — mi spiegò.

— Viale incantato. Oho, un nome assai romantico per rag-

giungere un altrettanto romantico Schloss sul Reno...

— E' una strada privata — continuò lei. — Conduce proprio

all'ingresso del castello di mio zio. Il terreno in discesa arriva sino

al fiume. C'è pure un imbarcadero, ma lui lo usa poco. Viene qual-

che volta qui a fine settimana, ma... Non è uno di quei nobili

decaduti costretti a trasformare la casa in un museo o in una meta

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per turisti a pagamento. E' un industriale, e i quattrini non gli man-

cano.

Trovai la stradina dalla denominazione romantica e la imboc-

cai. Il terreno era boscoso, fitto di piante verdi e di cespugli fioriti.

Mi inerpicai piano piano perché il percorso era piuttosto ripido;

ogni tanto riuscivo a scorgere qualche prato smeraldino tra gli albe-

ri. Helga continuava a battere i denti, e man mano che salivo sentivo

l'aria farsi più fredda. Anche a me si accapponò la pelle. Fui ben

contento quando arrivai davanti al ponte levatoio dell'immenso ca-

stello severo e circondato da un fossato che lo rendeva ancor più

minaccioso.

Helga mi disse di attraversare il ponte ed io obbedii. Mi fer-

mai davanti a un portale massiccio. Helga scivolò fuori e andò a

frugare tra le pietre del muro di cinta, poi tornò con un mazzo di

chiavi in mano. Le tipiche chiavi da castello, di ferro un po' ruggi-

noso, grosse e pesanti. Non feci nemmeno in tempo a balzar giù

dalla macchina per aiutarla, che lei ne infilò una nella toppa e spa-

lancò i due spessi battenti.

Poi risalì in macchina e mi diede altre istruzioni.

— Adesso procedete sino al cortile, poi andremo a toglierci di

dosso questa maledetta roba bagnata.

— Bene — risposi, dirigendo la minuscola Opel verso il corti-

le enorme e deserto, lastricato di pietra come ai tempi dei Cavalieri

teutonici.

— Vostro zio ha un telefono, per caso? — domandai a Helga.

Ero ansioso di domandar notizie sui sopravvissuti al disastro.

— Certo — mi rispose la ragazza. — L'edificio è di epoca, ma

le comodità moderne non mancano. Ci sono apparecchi un po'

ovunque, quasi in tutte le stanze. — Si tuffò le dita tra i capelli per

scuoterne via l'umidità.

— Bene. Come vi ho detto, avrei dovuto salire a bordo del

battello per incontrarmi con un amico, e vorrei cercare di sapere che

ne è stato di lui.

L'atmosfera del castello aveva qualcosa di irreale, di fantoma-

tico. Silenzio e quiete dappertutto. Quando posai i piedi nudi sui

lastroni di pietra mi sentii buffo e anacronistico. Non avevo addosso

che un paio di slips bagnati e tremavo di freddo pure io.

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— Niente domestici? — domandai.

— Lo zio se li porta solo quando viene, di solito — mi rispo-

se. — So che da qualche parte c'è un giardiniere... Anche il

cantiniere dovrebbe star qui fisso, ma non mi pare che ci sia nessun

altro. Andiamo, vi condurrò in una stanza dove potrete rimettervi un

po' in ordine.

Mi introdusse nell'anticamera enorme. Diedi luna rapida oc-

chiata e intravvidi nella semioscurità due lunghe tavole di quercia,

degli stendardi e insegne medioevali che pendevano dal soffitto, pa-

reti di pietra grigia e un camino che sembrava una grotta.

La camera che Helga mi aveva promesso risultò un'altra piaz-

za d'armi, con un letto a baldacchino nel mezzo, ricche tappezzerie

e tendaggi di broccato, poltrone enormi dalle spalliere altissime e

coperte da cuscini di seta imbottita. Un imponente armadio troneg-

giava contro una parete. Helga lo aprì e ne estrasse un asciugamani,

che mi buttò.

— E' una specie di stanza per gli ospiti — mi spiegò vedendo

che mi guardavo attorno con un certo stupore divertito. — Ci ho

dormito spesso anch'io. Adesso vado nella camera laggiù, in fondo

al corridoio, a cambiarmi. Ci vediamo tra una decina di minuti.

— Siete sicura che nel frattempo il fantasma non verrà a dar-

mi il benvenuto?

— Di giorno non c'è mai.

La osservai mentre si allontanava, con l'abito ben incollato al

provocante posteriore, e mi dissi che era tanta davvero ma che non

aveva l'aria di curarsene e si muoveva come se fosse stata una silfi-

de. Mi asciugai con cura, mi rivestii al completo, salvo la giacca,

poi mi distesi sul lettone principesco. Avevo appena finito di dirmi

che forse ero nato nel secolo sbagliato quando Helga ritornò. S'era

infilata un paio di jeans color cachi e una camicetta marrone anno-

data sull'addome che lasciava un bel po' di epidermide scoperta. La

guardai sbalordito. Ho conosciuto donne abbastanza coraggiose che

dopo un'esperienza del genere avrebbero avuto la tremarella almeno

per una settimana e si sarebbero cacciate a letto con le convulsioni.

Helga no. Si era spazzolata i capelli biondi e nei suoi occhi non si

notava più alcuna traccia del terrore che aveva provato.

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— Dimenticavo che volevate il telefono — mi disse con un

sorriso. — Sta sotto il letto. Io adesso scendo e torno nel salone.

Raggiungetemi quando avrete terminato.

Ancora una volta la seguii con gli occhi. I jeans le aderivano

ai fianchi quanto l'abito bagnato di poco prima. Non era facile igno-

rarla.

Infine conclusi che anche questo secolo andava bene, tutto

sommato, e cacciai una mano sotto il letto in cerca dell'apparecchio.





2


Fu una cosa penosa e lentissima che avrebbe scoraggiato chiunque,

ma io insistetti. Chiamai tutti gli ospedali e i posti di pronto soccor-

so della zona. Avevo quasi esaurito la lista quando ebbi proprio la

risposta che temevo: il cadavere di Ted Dennison era stato recupera-

to e identificato. Oltre Helga c'erano soltanto quattro superstiti: due

uomini, una donna e un bambino. Ma il povero Ted non era tra que-

sti.

Mi affrettai a fare una chiamata intercontinentale per dare la

brutta notizia a Hawk, e ottenni la comunicazione più presto di

quanto non sperassi. Gli raccontai del tragico incidente al quale

avevo assistito. Lui mi lasciò dire sino alla fine, e dopo una breve

pausa di silenzio buttò lì un'affermazione che mi raggelò:

— Non è stata una disgrazia.

Quelle parole pronunciate in tono aspro non richiedevano

spiegazioni. Ci capivamo.

— Ne siete sicuro?

— Be', se volete delle prove potete scordarvelo — rispose. —

Ma vi garantisco che sono ben convinto, e che i miei non si possono

definire sospetti campati in aria.

Mentre parlava, alcuni particolari mi balzarono alla memoria

con nitida precisione. Rividi il battello, risentii il doppio boato. Sì,

le esplosioni erano state due, in successione rapida, quasi simulta-

nea, ma due. Di questo ero certissimo. Prima la meno assordante; la

seconda era arrivata subito, e lo scoppio delle caldaie mi aveva lace-

rato i timpani. Ma si era trattato di due detonazioni ben distinte, E

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dopo le parole del vecchio, tutto ciò assumeva un significato preci-

so.

— E avrebbero ammazzato tutta quella gente, solo per elimi-

nare Ted? — gli domandai.

— Certo. Volevano impedirgli di incontrarsi con voi, di par-

larvi e di consegnarvi il materiale che aveva raccolto — precisò

Hawk. — Cosa volete che significhino per loro poche centinaia di

vittime innocenti? Per certa gente si tratta di un giochetto. Via,

Nick, non verrete a dirmi che la cosa vi stupisce, dopo tanti anni!

Il capo aveva ragione, non avrei dovuto meravigliarmi né

scandalizzarmi, con l'attività che svolgevo. Quante volte avevo assi-

stito alla crudele indifferenza con la quale si sacrificavano le vite

umane per raggiungere uno scopo non certo nobile né pulito? Il pre-

testo era sempre il medesimo: il fine giustifica i mezzi. Pretesto

validissimo anche per chi ha voglia di menar le mani e scatena le

guerre, no? Non era dunque il caso che mi indignassi per il sistema

adottato. Ma ero furibondo perché ci era andato di mezzo Ted, e con

lui avevano distrutto delle informazioni vitali.

— Qualunque cosa avesse scoperto — dissi a Hawk — dove-

va trattarsi di roba importante. A quanto pare questa gente non si

lascia crescere l'erba sotto i piedi.

— E se era importante per lui, lo era per noi — convenne il

vecchio con voce stizzosa. — Domani ci vedremo a Berlino Ovest,

al solito posto. E' necessario che discutiamo insieme su questa spor-

ca faccenda. Prenderò l'aereo stasera e arriverò domattina. Così vi

spiegherò quel che dovete sapere. Non è che siamo molto addentro

neanche noi, ora come ora, ma vedremo di unire le nostre teste e di

raggiungere una soluzione.

Riattaccai il ricevitore con un grosso nodo di rabbia che mi si

stava attorcigliando nello stomaco. E non si trattava solo della mor-

te di Ted. Le altre vittime mi facevano ancora più pena. Ted era un

professionista come me, e chiunque abbraccia una carriera tanto

pericolosa è pure disposto a rimetterci la pelle prima o poi. Aveva-

mo sempre la morte che ci ghignava alle spalle, noi. Ci eravamo

abituati a ridere, amare, mangiare e dormire in sua compagnia. Ber-

sagli viventi di continuo. Se volevano far fuori Ted potevano

scegliere tra mille sistemi. Ma no, avevano scelto il più comodo,

13



anche se doveva costar la vita a un mucchio di persone che non

c'entravano per nulla. E così facendo mi avevano costretto a inter-

venire. Non solo come agente dell'AXE, ma come uomo.

Chiunque fossero, li avrei costretti a pentirsi. E al più presto.

Scesi dal letto, aprii la porta pesante e mi inoltrai nel lungo,

umido e scuro corridoio dalle pareti di pietra. Ad un certo punto

capii, o meglio sentii, che non ero solo. Una certa sensazione di pru-

rito alla schiena mi avvertì che un paio d'occhi mi stavano osser-

vando. Mi volsi, ma scorsi soltanto delle ombre vaghe. Eppure

qualcuno ci doveva essere. Infine vidi in fondo un tipo che mi stava

guardando. Era alto, ben piantato, con i capelli color sabbia. Non

aveva l'aspetto di un giardiniere né di un addetto alle cantine. Non

mi domandò chi ero. Si limitò a fissarmi come se fosse incuriosito,

poi scomparve dietro una delle porte numerose che si aprivano sui

due lati del passaggio.

Scesi nel salone d'ingresso e trovai Helga seduta a uno dei

grossi tavoli di quercia.

— In corridoio ho visto un uomo —. le dissi. — Non vorrei

che mi avesse scambiato per un ladro. Mi guardava con una cer-

t'aria di sospetto.

— Oh, sarà stato Kurt, il custode — rispose lei con un sorriso.

— M'ero scordata di lui. Qui ci vuol sempre qualcuno di guardia.

Si alzò e mi venne vicino, poi mi prese le mani tra le sue. Si

era resa conto benissimo che non riuscivo a staccare gli occhi da

quei seni superbi che minacciavano di esplodere dalla blusa leggera.

Le spiegai che il mio amico era perito nell'esplosione; ne fu spia-

cente e mi disse alcune parole gentili e rabbrividì al pensiero di quel

che sarebbe potuto capitare anche a lei. E quando le comunicai che

l'indomani avrei dovuto andare a Berlino Ovest mi lanciò un sorriso

radioso e batté le mani.

— Ma è magnifico! — esclamò. — Io abito proprio là, a Ber-

lino Ovest! Potremmo passare la notte qui al castello, e partire

domattina presto in macchina. Ormai si avvicina il tramonto, non è

piacevole viaggiare col buio. E poi mi piacerebbe giocare un po' a

far la padrona di casa e prepararvi la cena. Oh, vi prego, accontenta-

temi!

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— Per me andrebbe benissimo, ma non vorrei che vi incomo-

daste troppo — dissi. Ma la protesta fu debolissima. L'idea di passar

la notte con quella splendida Vichinga non mi ripugnava affatto.

Non è che avessi formulato in cuor mio dei piani diabolici, ma l'e-

sperienza mi aveva insegnato che non bisogna buttar via le

occasioni perché non si sa mai che cosa può capitare. E se Helga

avesse insistito per dimostrarmi la sua gratitudine... be', sarei stato

scemo a respingerla, no?

— Oh, non sarà affatto un disturbo — mi rassicurò, e ancora

una volta richiamò la mia attenzione su quelle curve generosissime.

— Mi avete salvato la vita, dopotutto, e meritate ben altro che una

cena. Ma perlomeno cominciamo con quella. E speriamo di non far

figuracce.

Stavo cominciando a scoprire che Helga era una di quelle per-

sone che parlando davano almeno sei significati diversi a ciò che

dicevano, poi passavano ad altro di colpo, lasciandovi lì a doman-

darvi come un allocco se per caso non avevate preso un granchio o

se lei aveva proprio inteso dire che...

— Andiamo — continuò prendendomi per mano. — Venite a

farmi compagnia in cucina mentre io preparo qualcosa. Così potre-

mo chiacchierare un po'.

Pure la cucina, manco a dirlo, risultò immensa ma utilizzabile

e ben funzionante. Un'altra piazza d'armi zeppa di rame lustro e

assai decorativo, però provvista anche di pentole d'acciaio inossida-

bile o smaltato. Utile e dilettevole, insomma.

Lo zio doveva essere un buongustaio convivialista, perché tra

pentolame e stoviglie là dentro si sarebbe potuto sistemare benissi-

mo un esercito. Forse durante i week-ends al castello soleva portarsi

lì il solito paio di amici. Un forno di pietra antico, pure lui profondo

come una caverna, era incassato in una delle pareti. E accanto ad

esso la nota moderna del frigorifero ultimo modello munito di su-

percongelatore. Helga tirò fuori appunto dal freezer un abbondante

pezzo di bue e lo affettò svelta con un grosso coltello; in pochi

minuti mise parecchia roba al fuoco e accese il forno. Io sprofondai

in una bella seggiolona comoda e stetti a guardarla lavorare. Mentre

trafficava qua e là tra i tegami, mi disse che faceva la segretaria a

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Berlino Ovest, che era nata a Hannover e che apprezzava la dolce

vita.

Raggiunto un momento di pausa nelle attività culinarie, mi

afferrò di nuovo per mano e mi pilotò sino a un piccolo bar

nell'office tra cucina e salone d'ingresso e mi diede l'incarico di pre-

parare gli aperitivi. Poi, ognuno con il proprio bicchiere in mano,

andammo a fare un rapido giro del castello. La cottura delle vivande

ormai procedeva da sola.

Notai che il castello aveva al primo e al secondo piano una

gran quantità di stanzette, oltre alle piazze d'armi che già avevo

visto. La mia guida mi teneva sottobraccio e mi trasmetteva un calo-

rino assai tentatore. Il ferro battuto antico imperava ovunque, e le

scale di pietra erano del tipo a chiocciola, senza corrimano. Intrav-

vidi una stanza al primo piano che era stata rammodernata con

scaffali di libri alle pareti e una scrivania d'angolo. Helga mi disse

che quello era lo studio di suo zio. Continuò a conversare, filando

rapida. Non capii se aveva fretta perché temeva che qualcosa bru-

ciasse sui fornelli, o se cercava di non farmi capire che escludeva

dalla visita quasi tutto il lato sinistro del primo piano, dove tre porte

erano ermeticamente chiuse. Be', poteva darsi che lo zio avesse i

suoi segreti da custodire, là dentro, e che lei rispettasse la sua volon-

tà. Ma quelle porte chiuse risultavano cospicue in mezzo a tutto il

resto.

Quando tornammo giù manifestai il desiderio di visitare le

cantine. Mi parve di scorgere una lieve esitazione che durò solo un

istante. Ma fu una cosa tanto fugace che non avrei potuto affermarlo

con certezza.

— Certo, le cantine — disse sorridendo. E mi trascinò giù per

una scaletta assai ripida, di pietra piuttosto viscida. Mi mostrò poi

file e file di grosse botti in perfetto allineamento, ognuna con il suo

rubinetto di legno e la targa che specificava il tipo di vino e l'annata.

Anche laggiù si restava colpiti dalla vastità degli ambienti e dalla

quantità enorme di botti.

Tornai su con un piccolo dubbio che mi rodeva nel cervello.

Mi sembrava di aver notato qualcosa di stonato ma lì per lì non riu-

scii a collocare di preciso quella sensazione. Il mio cervello lavora

sempre in questo modo tortuoso. Mi lancia dei brevi segnali che io

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accantono e cerco di chiarire in seguito. Come una serie di punti di

riferimento che se ne stanno quieti nella mia testa ma che al mo-

mento giusto schizzano fuori e si rendono utili. Anche qui mi

accadde un fenomeno del genere. La cantina in apparenza era nor-

malissima, eppure io non ero del tutto soddisfatto. Dunque ci

doveva essere qualcosa di storto. Misi in disparte quella sensazione

fastidiosa perché sapevo benissimo che sarebbe stato inutile scervel-

larmi.

In cucina osservai Helga che finiva i preparativi della cena.

— Sapete, Nick, siete il primo americano che mi capita di co-

noscere di persona — mi disse ad un certo punto. — Ho visto una

quantità di turisti, naturalmente, ma quelli non contano. E debbo

precisare che nessuno vi assomiglia. Debbo dirvi pure che siete bel-

lo in modo eccezionale.

Sorrisi imbarazzato abbozzando un inchino cerimonioso. Hel-

ga si stiracchiò.

— Mi trovate desiderabile? — mi domandò infine senza tante

perifrasi. Se si fosse trovata in tribunale l'avrebbero accusata di cer-

car di influenzare il teste. Ma per fortuna non si trattava di un

processo, così potei guardare con aperta ammirazione tutto ciò che

mi mostrava.

— Desiderabile? Non direi che la parola è adeguata, bellezza

— le risposi. Lei sorrise e tolse dalla credenza una pila di piatti.

— La cena è quasi pronta — mi comunicò. — Facciamoci un

altro drink intanto che apparecchio e mi cambio.

Dopo il secondo giro di aperitivi cenammo a lume di candela

ad un'estremità del lungo tavolo, davanti al camino acceso. Helga

era andata a mettersi un abito di velluto nero con una lunga fila di

bottoncini che partivano dalla scollatura e arrivavano alla vita.

Le asole erano piuttosto distanziate, e tra una e l'altra si vede-

va l'epidermide. Sotto dunque la ragazza non portava nulla, e

doveva essere ingrassata un po' da quando s'era fatta quei vestito. Il

tessuto infatti conduceva una battaglia impari per non esploderle sul

seno, e aspettavo con un certo interesse la conclusione di quell'in-

contro.

Helga mise in tavola un paio di bottiglie di vino locale, davve-

ro superbo, e mi spiegò che non si trattava della produzione di suo

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zio. Lo zio infatti imbottigliava ben di rado, perché vendeva il vino

in botti e pensavano i clienti a fare il resto.

La cena, ottima, fu un autentico successo. Aperitivi, cibo e

vino contribuirono a rendere più caldo il rapporto che si era stabilito

tra Helga e me. Andammo a sederci davanti al camino con un finale

costituito da vecchio Armagnac profumatissimo. Il divano era spa-

zioso e comodo. La serata s'era fatta fredda e il castello, umido e

poco illuminato, aumentava quella sensazione di gelo nelle ossa; il

fuoco perciò rappresentava una benedizione e ci rendeva sonnolenti

e teneri.

Helga mi domandò:

— In America siete ancora assai puritani nei confronti del ses-

so?

— Puritani? — ripetei. — In che modo lo intendete?

Lei giocherellò con il bicchiere, poi se lo portò alle labbra e

mi fissò.

— Ho sentito dire che le ragazze americane sono un po' ipo-

crite perché hanno sempre bisogno di una giustificazione ogni volta

che desiderano andare a letto con un uomo — disse con voce pigra.

— Sono convinte di aver il dovere di dirsi almeno innamorate. Op-

pure prendono la scusa di aver bevuto troppo, o dicono che hanno

ceduto per compassione, o altre sciocchezze del genere. E pare che i

maschi americani si aspettino appunto questi pretesti. Altrimenti

pensano che la ragazza sia una sgualdrina.

Dovetti sorridere. Non era affatto sbagliato quel che le aveva-

no detto sulle donne americane. Dio sa se ne sapevo qualcosa io,

che avevo avuto agio di paragonarle spesso a quelle straniere e di

deplorare l'eccesso di freni inibitori nell'educazione puritana delle

nostre femmine.

Helga continuò:

— Voi, per esempio, come giudichereste una ragazza che si

abbandona senza sentire la necessità di ricorrere a certi ridicoli pre-

testi?

— Be', io non sono proprio quel che si dice il tipo di america-

no medio.

— No di certo. Debbo convenire che non avete proprio nulla

dell'uomo qualunque — mormorò guardandomi bene in faccia con

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evidente interesse. — Non dovete risultare "medio" in nessuna cosa,

a giudicare dal vostro aspetto. C'è in voi quel non so che... Non mi è

mai accaduto di trovarlo ancora in altri uomini. A guardarvi si

direbbe che potete essere terribilmente tenero e nel contempo terri-

bilmente crudele.

— Avete parlato delle giustificazioni e dei pretesti delle donne

americane, Helga. Da ciò arguisco che quelle tedesche non ne han-

no bisogno.

— Oh, al giorno d'oggi abbiamo superato certe ipocrisie — mi

rispose fissandomi con intenzione e continuando a stiracchiarsi e a

mettere a dura prova la resistenza dei piccoli bottoni. — Qui le scu-

se non servono più, ormai. Affrontiamo la realtà dei nostri desideri

e dei nostri bisogni, accettandoli come sono. Forse questo è il risul-

tato di tante guerre e di tante sofferenze, ma oggi abbiamo smesso

di darcela ad intendere. Diciamo pane al pane e vino al vino, debo-

lezza alla debolezza, bramosia alla bramosia, forza alla forza e sesso

al sesso.

Qui una ragazza non pretende che un uomo le dica "ti amo"

quando la desidera soltanto. Né il maschio pretende che la femmina

mascheri la propria curiosità con delle scuse sciocche.

— Molto illuminante e lodevole — osservai.

Gli occhi di Helga adesso si erano incupiti e avevano assunto

una tinta più blu che celeste, e guizzavano di continuo dal mio volto

al mio corpo e viceversa. Ogni tanto si passava la punta della lingua

sulle labbra tumide. Il suo desiderio era trasparente, percepibile co-

me l'elettricità. Naturale che la desiderassi anch'io. Tesi una mano

per accarezzarle la nuca, poi me' la tirai vicina.

— E cosa dite voi, Helga, quando provate qualche impulso

che i nostri bravi puritani definirebbero peccaminoso? — le sussur-

rai nell'orecchio. Lei socchiuse ancora un po' le labbra, mi si

accostò un altro poco.

— Dico: "Ti voglio" — affermò con la voce un po' arrochita.

E lo ripeté: "Ti voglio".

Le sue labbra incontrarono le mie. Erano dolci e morbide, cal-

de e arrendevoli. Poi il bacio divenne più appassionato e violento.

Le mie dita cominciarono a giocherellare con i suoi bottoni. Non in-

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contrai la minima resistenza, e ben presto le accarezzai i seni nudi e

tiepidi.

Per un istante si staccò da me e cominciò a divincolarsi, ma

non intendeva respingermi. In un attimo si fece scivolar giù il vesti-

to e tutto il suo corpo florido si liberò. Come avevo immaginato,

non portava che quell'unico indumento e non aveva intenzione di

tenerselo addosso a lungo. Ammirai la carne bianca, mi chinai a ba-

ciarla, e lei si abbandonò con un entusiasmo lusinghiero, rispose

alle mie carezze, mi si avvinghiò, mi conficcò gli artigli rossi nelle

spalle, alternò i baci ai morsi.

Anch'io cominciai a svestirmi, quando la vidi ansimare, e lei

mi aiutò con mani rese maldestre dalla fretta, tremanti.

I preliminari sono sempre piacevoli, anche se estenuanti. No-

nostante stessi bruciando anch'io come lei, mi attardai a lungo in

quell'operazione preparatoria, ma Helga mi supplicò di far presto

con una voce cupa che aveva qualcosa di animalesco. Mi parve che

nel suo abbandono non ci fosse nulla di tenero. Fu come un'esplo-

sione dovuta a qualche molla interna di "bisogno". Proprio il

bisogno di un animale in calore. Piacevole ma divorante.

Anche la sua struttura fisica — una via di mezzo tra la vichin-

ga e l'amazzone — contribuì ad imprimere una nota particolare al

nostro accoppiamento. I suoi fianchi robusti dall'ossatura forte la

rendevano molto simile ad una specie di Dea della Terra. Infatti non

c'era proprio nulla di spirituale in quella gattona bionda che sem-

brava mi volesse annientare.

Per fortuna io non sono un tipo facilmente annientabile, e riu-

scii a risponderle dandole ciò che voleva.

In seguito, mentre giacevo placato al suo fianco, mi resi conto

che reagivo in modo strano. Oh, era stata una cosa eccitante, senza

dubbio. E molto piacevole. Me l'ero goduta un mondo, come no?

Tuttavia mi sentivo insoddisfatto. Avevo la sensazione di essere sta-

to solo uno strumento. Una cosa di cui Helga si era servita per il

proprio piacere. Insomma, non mi pareva che ci fossimo scambiati

della "simpatia" nell'incontro. Se fossi stato una verginella avrei

detto che quella donna aveva abusato di me!

Guardai le sue curve piene e mi venne la curiosità di riprovare

per constatare se sarei rimasto ancora insoddisfatto com'ero adesso.

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Dopotutto la bionda valeva lo sforzo. Sì, sapevo per esperienza che

non sempre il primo amplesso dà il piacere sperato, e per un muc-

chio di ragioni diverse che non dipendono da noi ma da un

complesso di imponderabili. E' difficile "centrare" con una scono-

sciuta di cui si ignorano le reazioni psichiche e sensorie. Ci vuole

del tempo a volte per raggiungere l'armonia.

Di colpo com'era crollata, Helga si rizzò a sedere, si stiracchiò

un poco, poi scese dal letto.

— Adesso vado a dormire in camera mia.

— Sola? — le domandai stupito.

— Sola — rispose con voce piatta e tranquilla. — Non posso

sopportare di dormire con nessuno, non sono mai riuscita a farlo.

Buona notte, Nick.

Nel passarmi davanti mi sfiorò la faccia con un lieve bacio

fraterno, se così si può definire, poi se ne andò alla svelta, attraver-

sando di corsa la stanza in penombra come un bianco fantasma

privo di lenzuolo. Io rimasi lì per un po' a guardare il fuoco morente

nel camino, poi salii nella stanza che Helga mi aveva assegnato

all'arrivo. Mi coricai nel grande letto a baldacchino e conclusi che

quella era una strana ragazza. Non mi sembrava proprio una degna

rappresentante della Fräulein normale.

La mattina dopo mi svegliai presto. Lo Schloss era silenzioso

come una tomba e altrettanto allegro ed accogliente. Durante la not-

te mi ero svegliato una volta di soprassalto perché m'era parso di

udire un grido di dolore. M'aveva spaventato, quel grido, ma ancora

non potevo dire se avevo sognato o no. Per un po' ero rimasto là con

l'orecchio teso nel buio, ma non avevo più sentito nulla e ad un cer-

to punto m'ero rimesso a dormire. In seguito non si erano verificati

altri incidenti, sognati o veri che fossero, e io avevo fatto un bel

sonno profondo sino al mattino.

Mi vestii solo in parte e uscii per andare a cercare l'astuccio

con il rasoio che avevo lasciato in macchina. La porta di Helga era

spalancata e vi sbirciai dentro. Dormiva ancora, coperta solo fino

all'addome, con i magnifici seni giunonici allo scoperto e i biondi

capelli sparpagliati sul guanciale. Ancora una volta ammisi che era

una gran bella ragazza. Una ragazza notevole e insolita, cosa che af-

fascina sempre un uomo perché lo sconcerta.

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Ma quando ebbi terminato di radermi capii che durante il

giorno avrei avuto troppe cose da fare e che non mi sarebbe avanza-

to il tempo di pensare alle stranezze di Helga.

Mi accingevo a tornare nella sua camera per svegliarla quando

vidi quella piuma per terra in corridoio. Era lunga, brunastra con

delle chiazze nere. Le avevo già vedute da qualche parte, ma ora

non rammentavo dove né quando. La stavo appunto esaminando

incuriosito quando Helga comparve con l'abitino di cotone del gior-

no prima. Adesso che era lavato e stirato le dava un'aria provocante.

Le mostrai la penna.

— Entrano volatili di tutte le razze in questo castello — disse

lei con un'alzata di spalle, poi mi abbracciò e mi diede un breve

bacio sulla guancia. Tentai di reagire con qualcosa di più impegna-

to, ma lei scosse il capo.

— Vorrei tanto potermi fermare, ma...

— Anch'io. E anch'io ma. Pazienza, non pensiamoci più, al-

trimenti peggioriamo le cose.

Helga sorrise e fece un passo indietro. Poi mi tese la mano.

Scendemmo insieme così, come due ragazzini virtuosi, e in cortile

balzammo sulla Opel e ci affrettammo a partire.

Mentre mi calavo giù per il sentièro tortuoso che conduceva

all'autostrada, notai che sorrideva come se fosse soddisfatta di sé.

Ancora una volta mi dissi che quella Helga Ruten doveva essere un

tipo balordo. E quando mi diressi verso Berlino Ovest continuai a

pensare alla notte precedente. Era la prima volta che avevo passato

la notte in qualità di ospite in un castello. Rammentai pure che Hel-

ga aveva parlato spesso di suo zio, ma in fondo non mi aveva detto

nulla di lui. Mi venne la tentazione di domandargliene almeno il

nome ma poi vi rinunciai. Che me ne importava, in fondo? Avevo

avuto un interludio piacevole, ma adesso c'era ben altro a cui pensa-

re. Tra poche ore mi sarei incontrato con Hawk e Dio solo sapeva

quale missione diabolica mi avrebbe affidato il vecchio. Ben presto

Helga sarebbe stata soltanto un ricordo. E se per caso l'avessi rive-

duta mi sarei cavato la soddisfazione di riprovarci.

Arrivammo a Helmstedt – il posto di controllo per il traffico

proveniente dalla Germania Occidentale e diretto all' Autobahn – in

perfetto orario. Esaminarono le mie carte e non trovarono nulla da

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eccepire. Helga aveva il certificato di residente a Berlino Ovest, e

nemmeno con lei ci furono difficoltà.

Le centoquattro miglia che percorsi per raggiungere l'ex-capi-

tale tedesca mi fecero concludere che l'Autobahn aveva un bisogno

urgente di riparazioni. La sola cosa buona era la possibilità di corre-

re quanto volevo, ma il mio macinino arrivò a destinazione alquanto

malconcio dopo la prova.

A Berlino Ovest ci fu un altro breve controllo da parte dei

Vopo, la Volkspolizei della Germania orientale, ovvero Polizia del

Popolo. Una volta entrati nella zona occidentale, Helga mi spiegò la

strada che dovevo prendere per accompagnarla a casa sua. Abitava

dalle parti dell'aeroporto Tempelhof.

Quando fermai lei scese d'un balzo, poi mi diede una chiave.

— Se ti fermi un po' in città vieni da me. Ti costerà meno

dell'albergo.

— Se mi fermo verrò a trovarti, ci puoi contare — le risposi

infilandomi la chiave nel taschino. — E non sarà certo per rispar-

miare i quattrini dell'albergo.

Si allontanò dopo un breve cenno di saluto, ed io osservai i

suoi fianchi che ondeggiavano in direzione del numero 27 di Ulme

Strasse. Ripartii subito per vincere la tentazione di seguirla.

Quella chiave in tasca era già qualcosa. Ma ci avrebbe pensato

Hawk a impedirmi di utilizzarla, ero pronto a scommetterci.

Mi avviai verso la Kurfürstendamm, dove l'AXE aveva il suo

quartier generale tedesco.





3


La mia caffettiera a nolo aveva subito più di quanto non riuscisse a

sopportare, e adesso al rumore di ferraglia s'era aggiunto anche un

macinio sospetto, mentre mi avvicinavo alla "Quinta Strada" di Ber-

lino Ovest, la Kurfürstendamm Strasse.

Ora che avevo scaricato Helga m'ero trasformato in un tipo

deciso e pronto all'azione, con tutti i sensi all'erta, compreso il sesto.

Mi accadeva sempre così. Ad un certo punto l'Agente n.3 detto

"Sterminio" faceva un balzo avanti e si lasciava alle spalle tutte le

altre personalità. Ciò era dovuto in parte all'addestramento e in parte

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a qualche meccanismo interiore che pareva scattasse da solo; forse

era l'odore del rischio a farlo scattare, o l'anticipazione della lotta, o

l'eccitamento della prossima caccia. Non so bene, salvo che andava

sempre così e che ogni volta percepivo la trasformazione di me

stesso man mano che si verificava.

Sia che si trattasse di questa sensibilità particolare, sia che si

trattasse di abitudine, quando diedi un'occhiata allo specchietto re-

trovisore mi accorsi che qualcuno mi stava seguendo. Il traffico era

notevole e avevo cambiato strada parecchie volte per non venir

meno al sano principio di far perdere le mie tracce a chiunque in-

tendesse pedinarmi. Ma l'avevo fatto solo per prudenza, in quanto

era troppo importante mantener segreta l'ubicazione dell'agenzia

berlinese dell'AXE. In realtà non pensavo che qualcuno mi avesse

già identificato e mi si fosse messo alle calcagna. Troppo presto.

Eppure ad ogni svolta avevo notato alle mie spalle una Lancia che si

teneva sempre un po' indietro, di almeno tre o quattro macchine, ma

che seguiva esattamente il mio percorso.

Era un bestione potente, grigio-acciaio, modello 1950 o giù di

lì. Ma il fatto che fosse vecchia non aveva importanza. I tipi nuovi

non avevano portato molte migliorie nella Lancia, e quella che mi

stava dietro poteva dare del buon filo da torcere al mio macinino

sgangherato.

Presi ancora qualche svolta brusca, tanto per avere la confer-

ma dei miei sospetti, e vidi che non mi ero sbagliato. La Lancia mi

stava sempre dietro, sempre tenendosi a debita distanza per non in-

sospettirmi. Ma io ero già consapevole. E all'erta.

Mi domandai come avevano fatto – chiunque fossero – a

pescarmi così in fretta. Poi, ripensandoci, mi resi conto che se qual-

cuno intendeva tenermi d'occhio non doveva aver fatto molta fatica.

Magari sapevano, com'era probabile, che dovevo incontrarmi con

Ted, e mi avevano tallonato sin da Francoforte, quando avevo preso

quella Opel a nolo. Non c'era da stupirsene, e già cominciavo a non

sottovalutare l'abilità di quella gente. Dovevano avere una rete assai

rispettabile di spie ben coordinate, e già mi avevano offerto una bel-

la prova della loro efficienza facendomi esplodere il battello sotto

gli occhi. E adesso seguivano me. Eliminato Ted, seguivano me per

vedere dove li portavo, sperando che li conducessi proprio da papà

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Hawk. "Vi porterò da vostra nonna, all'inferno!", sibilai tra i denti.

Stavano freschi se speravano che fossi idiota.

Spinsi la Opel al massimo e le feci fare un paio di giri attorno

a un'isola pedonale, poi tagliai per una stradina angusta. La Lancia,

assai più voluminosa, dovette prendere la curva in modo assai bru-

sco, e notai con soddisfazione che quasi non ce la fece. Svoltai con

altrettanta rapidità al successivo angolo, indi girai di nuovo a sini-

stra. Mi pervenne lo stridore dei freni della Lancia che si sforzava di

starmi dietro. Se quel labirinto di viuzze si fosse esteso per un altro

poco, sono sicuro che sarei riuscito a seminarli. Ma il groviglio tan-

to comodo terminò. Lo constatai con un'imprecazione quando mi

trovai su una strada larga e diritta, affiancata da magazzini e deposi-

ti di autotreni. Scorsi nello specchietto la Lancia che incalzava

spietata. Ormai avevano capito che m'ero accorto dell'inseguimento

e non cercavano più di nascondersi dietro altre macchine. Erano de-

cisi a beccarmi e guadagnavano terreno alla svelta. Un macchinone

come quello avrebbe trasformato la piccola Opel in una polpetta, se

fosse riuscita a tamponarmi. La carrozzeria della Opel era un guscio

d'uovo. Se avessi potuto prevedere quella gimkana, a Francoforte

avrei noleggiato un panzer, ma ora come ora immaginavo quel che

sarebbe accaduto: una collisione, uno dei tanti incidenti stradali. La

Lancia sarebbe filata via, e la Polizei si sarebbe arrangiata a dispor-

re dei resti.

Il macinino non ne poteva più. Faceva un chiasso d'inferno ma

in fatto di velocità non guadagnava un centimetro. Quella doppia

fila di magazzini ai lati pareva interminabile. Non c'erano svolte, e

la Lancia avanzava sempre più veloce.

D'un tratto notai un angusto passaggio tra due depositi. Virai

di colpo, mentre i freni manifestavano la loro stridula protesta. Un

paraurti sfiorò una piattaforma da scarico ed io intuii dal sobbalzo

che s'era preso una bella ammaccatura. Però ce l'avevo fatta a passa-

re, proprio per un pelo. Non avevo udito la Lancia frenare di colpo

come avrebbe dovuto, e me ne domandai il perché. Ne capii il moti-

vo quando sfociai dall'estremità opposta del passaggio e vidi la

macchina grigio-acciaio spuntare da un altro angolo due isolati più

avanti. Quei maledetti erano avvantaggiati dal fatto di conoscere la

città assai meglio di me.

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Ora mi trovavo su un'altra strada spaziosa ed ero tornato al

punto di partenza. La Lancia mi tallonava. Adesso qualche strada

laterale c'era, ma mi accorsi che mi mancava il tempo di ritentare lo

scherzo di prima. Quel bestione mi avrebbe investito in pieno, e a

piena velocità.

Sterzai rapido mentre la Lancia raggiungeva uno dei parafan-

ghi posteriori della Opel, che fece un testa-coda. L'altra macchina

però si era lasciata trascinare dalla spinta e mi aveva oltrepassato.

Fece marcia indietro per tornare all'attacco ed io, ripreso il controllo

della vettura, imboccai una laterale prima che quelli mi venissero

addosso. E quelli rombando ripresero l'inseguimento. Maledetti ma-

ledetti maledetti. Non ero ancora riuscito a vederli in faccia, ma

sapevo che erano in tre o quattro. Avvantaggiati pure dalla superio-

rità numerica, accidenti a loro!

La strada laterale portava ad uno spiazzo occupato da molte

bancarelle di venditori ambulanti. Un mercato all'aperto, per lo più

di frutta e verdura. Mi insinuai a fatica tra le bancarelle abbastanza

contento al pensiero che anche gli altri sarebbero stati ostacolati.

Scorsi con un'occhiata la Lancia che emergeva implacabile dall'an-

golo. Ancora una volta la scarsità di spazio mi offrì un temporaneo

vantaggio, anche se sapevo che non sarebbe durato a lungo. Dovevo

trovare una soluzione lì perché se fossi uscito dal mercato sarei

morto. Mi diressi verso un edificio quadrato davanti al quale era

fermo un grosso camion dalle portiere aperte. Fermai la Opel di

fianco al camion, balzai giù, montai sul pesante automezzo e ridi-

scesi rapido dalla portiera opposta. Frattanto la Lancia guadagnava

velocità e si scagliava a tutta birra contro il baule posteriore del mio

macinino. Mi pervenne il frastuono del cozzo e immaginai che la

Opel era diventata una fisarmonica, mentre era presumibile che la

dannata Lancia non avesse un graffio. Bella forza!

Già prima di parcheggiare in quel punto avevo notato il por-

tello aperto di fronte al cofano del camion. Poteva rappresentare una

via d'uscita e mi affrettai a raggiungerlo. Arrischiai un'occhiata alle

mie spalle e mi pervenne il sibilo di una pallottola. Accidenti a loro,

mi avevano già visto! Ed erano proprio in quattro. Adesso erano

smontati dalla macchina e mi rincorrevano di corsa. Anch'io però

ero armato, e pensai di utilizzare Wilhelmina per bloccare un po' il

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loro entusiastico zelo. Tirai il grilletto ed ebbi la soddisfazione di

vedere che si sparpagliavano come foglie sospinte dal vento; intanto

io scivolai all'interno dell'edificio. Vidi subito che si trattava di un

enorme stanzone, scuro come una caverna, pieno di pile e pile di

cassette sovrapposte, balle e scatoloni di varia misura. Una vera

ragnatela di scalette metalliche portava sulle scansie, pure metalli-

che, che formavano i ripiani superiori. Anche lassù avevano

depositato altre cassette. La mia idea sarebbe stata quella di entrare

dal portello e filar via dall'uscita posteriore. Non sarebbe stata poi

un'idea malvagia. Ma purtroppo non esisteva alcuna uscita posterio-

re. Tutto chiuso ermeticamente. Non c'era che il vano per il quale

m'ero introdotto, e che ora avrebbe permesso di entrare anche ai

miei inseguitori.

Udii un suono di passi e di voci, e mi appiattii dietro una pila

di scatoloni. Si stavano separando e si mettevano a ventaglio per

catturarmi con più facilità. Strategia da manuale scolastico. Questi

tedeschi sempre privi di immaginazione! Si attenevano sempre in

modo cieco all'autorità dei testi, e non calcolavano mai gli imponde-

rabili.

Sentii che uno di loro avanzava nella mia direzione, incauto e

troppo svelto. Lo avrei beccato benissimo con una pallottola della

mia "Wilhelmina" se proprio in quell'istante un'asse non avesse

scricchiolato sotto le mie scarpe. Mandai un paio di moccoli quando

lo vidi fermarsi e arretrare piano.

Fui molto stupito, nell'osservare l'individuo. M'ero aspettato

un tipo di teutone massiccio e biondo, o magari anche uno slavo o

chissà, un bel cinesino giallo. Invece costui era un ometto piccolo e

molto bruno, dal naso a becco. Lì per lì non avrei saputo dove col-

locarlo.

Vedendo che si cacciava la mano in tasca per estrarre la pisto-

la gli balzai addosso e gli mollai una sventola alla mascella che lo

rovesciò all'indietro come un birillo. Ma aveva fatto in tempo a im-

pugnare l'arma e a tirare il grilletto. Il colpo partì, per fortuna a

vuoto, ed echeggiò in modo tremendo nello stanzone.

Altri passi vennero di corsa nella mia direzione ed io scivolai

in uno stretto passaggio tra le pile di cassette, poi mi insinuai in un

altro, e in un terzo. Tanto per disorientarli un po'. Sentii che si fer-

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mavano accanto al compagno abbattuto e lo aiutavano a rimettersi

in piedi. Poi si infilarono in una delle varie strettoie, come avevo

fatto io, ma cercarono di non allontanarsi troppo dal portello per

non precludersi un'eventuale via d'uscita.

Mi guardai alle spalle e vidi che potevo arretrare, sì. Ma non

sarebbe stato che ritardare di qualche minuto l'inevitabile. Sarei fi-

nito con le spalle al muro e quattro avversari di fronte. E non avrei

più avuto scappatoie. Vidi che la pila di cassette dietro la quale m'e-

ro rifugiato era disposta a scala, forse per facilitare il raggiungi-

mento degli scaffali superiori. Balzai con l'agilità silenziosa di un

gatto sulla prima e poi procedetti sino alla sommità e avanzai stri-

sciando sul ventre per affacciarmi a guardar giù. Li scorsi in uno dei

passaggi che avanzavano piano, cauti, e sbirciavano in tutti gli an-

goli. Adesso s'erano fatti prudenti. Due erano alti e biondi come

m'ero aspettato, e gli altri due piccoli, bruni e secchi.

Non sarei mai uscito da quel magazzino con l'aiuto della

pistola. Una sparatoria avrebbe finito con l'intrappolarmi là dentro,

e i pronostici erano quattro a uno in loro favore. Non avevo molte

possibilità. E cominciavo già a sentirmi prigioniero in quella specie

di cul-de-sac.

Bisognava uscire al più presto. Una parola. Mentre stavo lì

affacciato, una delle cassette vacillò un poco e mi diede un'idea.

Uno dei miei pedinatori stava proprio lì sotto. Feci un calcolo rapi-

dissimo della distanza tra le file e del tempo che mi sarebbe

occorso. Valeva la pena di tentare, e almeno li avrei colti di sorpre-

sa. L'elemento sorpresa era importantissimo perché mi avrebbe dato

qualche secondo di vantaggio su di loro. E un secondo di vantaggio

significava poter balzare alla porta e arrivarci primo.

Diedi un bello spintone alla cassetta che piombò proprio sul

bersaglio. Ma mentre la muovevo mi toccò fare un po' di rumore e

l'uomo ebbe il tempo di guardar su e di scansarsi. Non gli servì mol-

to perché il missile gli arrivò addosso ugualmente e lo abbatté.

Sentii il suo mugolio di dolore e la bestemmia che lanciò mi parve

una musica celestiale. Spiccai un balzo e scavalcai il passaggio tra

le due pile di casse. Quando mi ritrovai sull'altra sponda filai svelto,

senza curarmi di essere udito o no. Adesso la cosa essenziale era la

velocità.

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Calcolai ancora la larghezza del nuovo passaggio senza fer-

marmi e balzai di là. Stavolta vi atterrai sulle mani e sui piedi. Poi

mi calai giù senza perder tempo e corsi come un fulmine verso il

portello. Sentii che il quartetto mi rincorreva, ma prima che fossero

arrivati stavo già fuori e filavo sul marciapiede. Quei pochi secondi

di vantaggio mi avevano servito davvero, ma non era detto che fossi

del tutto "fuori dal bosco". Notai un gruppo di curiosi che guarda-

vano la Opel accartocciata. Certo erano in attesa dei vigili. La

Lancia, maestosa e deserta, stava pure aspettando quei bravi signori

che non avrebbero tardato a riprendere la caccia.

Mi volsi e ne vidi tre in arrivo. A piedi, naturalmente. Cercai

di mescolarmi tra la folla dei compratori che si trovavano al merca-

to con l'illusione di perdermici, poi l'occhio mi cadde sulla ragazza

che stava infilandosi con un grosso pacco di provviste in una Mer-

cedes 250-SL.

Proprio quel che mi occorreva. La Mercedes, non la ragazza.

Sapevo che quella macchina sarebbe andata più svelta della Lancia.

Notai con un'occhiata fugace che la pupa era graziosa, alta e sottile,

e che portava i pantaloni grigi e un maglioncino di un grigio un po'

più chiaro.

La raggiunsi proprio mentre apriva la portiera dal lato del

volante e si accingeva a montare. Si volse a guardarmi allarmata

quando piombai dentro anch'io e la spinsi in là per mettermi al

posto di guida.

— Zitta — sibilai con aria minacciosa. — State zitta e non vi

farò nulla.

Senza volerlo avevo parlato in inglese, poi mi ricordai che ero

in Germania e cominciai a tradurre, ma lei mi interruppe secca:

— Capisco benissimo l'inglese. Volete spiegarmi cosa inten-

dete fare?

Avviai la macchina e mi resi conto della potenza del suo mo-

tore.

— Nulla — le risposi mentre mi lanciavo come una bomba

addosso ai tre inseguitori. Li vidi indietreggiare e dividersi per evi-

tare di essere investiti. Notai pure, quando li ebbi oltrepassati, che

risalivano in fretta sulla Lancia. Si volse pure la ragazza e notò che

la macchina cominciava la rincorsa.

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— Fermatevi subito — mi disse in tono autoritario — e scen-

dete. Non avete alcun diritto...

— Spiacente — ribattei, e presi una curva audacissima su due

ruote.

— Non siete tedesco — osservò. — Americano, vero? Basta

vedervi guidare... Chi siete, un disertore?

— No, carina — le risposi prendendo un'altra curva fulminea.

— Ma adesso non è il momento del quiz da sessantamila dollari. Vi

conviene starvene zitta.

Vidi che si voltava a guardare la Lancia inseguitrice. Io adesso

avevo raggiunto una strada aperta e premetti l'acceleratore con mol-

ta allegria. Sentii che la Mercedes rispondeva e sorrisi.

— Sono lieta di vedervi così soddisfatto — osservò lei con

acredine. — Si può sapere dove volete andare? Visto che mi co-

stringete ad accompagnarvi... Cosa intendete fare di me? Rapirmi

soltanto o eliminarmi?

— Piantatela. Ho detto che non vi farò nulla e lo ripeto. Rilas-

satevi, non è il caso di aver paura. Mi serviva una macchina

d'urgenza e ho preso la prima che...

— Ma bene! Però avete preso anche me.

Le lanciai un'occhiata di sbieco. Vidi che era bella davvero,

anche se quell'aria seccata non le donava affatto. Una faccina dall'e-

spressione volitiva e intelligente. E sapeva dominarsi abbastanza,

tutto sommato. Il maglioncino aveva i giusti rigonfiamenti al posto

esatto. Stavo per domandarle dove aveva imparato così bene quel-

l'inglese dall'accento e dalle espressioni americaneggianti, quando

un proiettile perforò il tetto della macchina.

— Buttatevi giù — le gridai. E lei obbedì. Si accoccolò sul

tappetino e mi guardò.

— Sapete, non mi sento affatto rilassata.

— Nemmeno io, ve l'assicuro — le risposi abbordando una

nuova curva che fece sprigionare qualche scintilla dai pneumatici.

Notai che era molto padrona di sé, e ciò mi fece piacere. Continuò a

studiarmi, seduta sul tappetino, come se si fosse trovata sulla pol-

trona di un salotto. Un altro sparo lacerò il tetto della Mercedes.

Quella brava gente aveva capito che non ce l'avrebbe fatta a supe-

rarci e bloccarci, così era passata alla violenza aperta. Il solo modo

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per costringermi a fermare la macchina. Adesso la strada fece una

curva larga, e mi trovai parallelo ad una mezza dozzina di binari.

Qualche raccordo, forse. Mi sembrava strano che una ferrovia per-

corresse un tratto della città.

Come a smentirmi, un rapido spuntò all'orizzonte e un'idea mi

spuntò in testa contemporaneamente. Ormai avevo capito che non

mi sarebbe stato facile scrollarmi di dosso quella Lancia nemmeno

con l'ausilio della Mercedes. Troppi ostacoli, case, traffico, svolte e

giravolte... Avrei avuto bisogno di un'autostrada per seminarli, ma

non ce n'era una vicina e disponibile. Qualcosa però avrei potuto

fare. Il primo passo consisteva nel mettere un altro poco di spazio

tra me e la macchina inseguitrice.

Accelerai ancora e la ragazza, sempre accoccolata, si irrigidì

mentre filavo come una freccia, sorpassando altre auto con dei

guizzi paurosi ed evitando collisioni solo per un pelo.

— Perché non vi costituite? — mi domandò infine. — E'

sempre meglio che accopparsi. Se vi degnate di prendere in consi-

derazione che ci sono anch'io e che non ho alcuna voglia di morire

ammazzata.

— Fate quel che vi dico e vedrete che tutto andrà bene — le

risposi.

Stavo raggiungendo un treno espresso che cominciava ad au-

mentare la velocità, e fui pure in grado di leggere la scritta sul

fianco dei vagoni: "BERLIN-HAMBURG-SCHNELIZUG". Filava

forte, per essere in città. Dovetti accelerare ancora per oltrepassarlo.

La Lancia per ora stava un po' indietro, ma sapevo che non mollava.

La ragazza dal faccino spiritoso mi fissò tra le palpebre socchiuse.

Sapevo che stavo rischiando forte e tra l'altro non ero sicuro di far-

cela.

Come scorsi a qualche centinaio di metri un incrocio di binari,

schiacciai l'acceleratore a tavoletta e osservai il tachimetro che sali-

va vertiginosamente. Ormai eravamo quasi addosso alle rotaie. Mi

volsi a guardare il treno in arrivo.

— Rimettetevi sul sedile — dissi alla ragazza, che mi obbedì.

— Non appena ve lo dirò, schizzate fuori e attraversate i binari co-

me un fulmine, capito? Mi raccomando bambina, non gingillatevi se

volete mantenervi in vita.

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Non fece commenti. Non ce n'era bisogno. Aveva visto anche

lei il treno espresso che arrivava all'incrocio. Sentii che le dita quasi

mi scivolavano giù dal volante, perché sudavano. Ma mi sentivo pu-

re pieno di crampi. Agitai per un po' la destra, poi la sinistra, e

infine impugnai lo sterzo con decisione. Fermai la macchina proprio

in mezzo ai binari e gridai:

— Fuori!

Lei aveva già spalancato la portiera. Intravvidi il suo sederino

che guizzava via e mi precipitai alle sue calcagna, lasciando la Mer-

cedes dove stava. Oltrepassate le rotaie la presi per mano e la

costrinsi a correre.

Ci eravamo appena allontanati quando la locomotiva investì la

Mercedes. Si udì un cozzo tremendo, poi una enorme lingua di fuo-

co si sollevò davanti al treno. Pareva che fosse avanzato un drago

sputafuoco.

La ragazza liberò la mano e si volse a guardare la massa in-

fuocata che il treno sospingeva ancora e che si trascinò avanti per

qualche metro.

— La mia macchina! — gridò.

La ripresi per mano e la costrinsi a seguirmi. Non dovevamo

fermarci lì. Ormai la Lancia era certo arrivata sulla scena del cosid-

detto incidente e se ne stava bloccata dall'altra parte del treno. I suoi

occupanti avrebbero dovuto pensare che avevo calcolato male e che

adesso mi trovavo tra le fiamme anch'io e mi sarei incenerito insie-

me alla mia compagna occasionale. Sorrisi soddisfatto e rallentai un

po' quando ebbi raggiunto un crocevia dietro il quale ripararmi.

— Ve ne comprerò un'altra — promisi.

Lei se ne stette lì a fissarmi ansante e cercò di riprender fiato.

Aveva una macchia di sporco in faccia e i capelli in disordine, ma

guardandola bene l'apprezzai sempre più, non solo per il suo bel

musetto e la figura da mannequin, ma per il controllo meraviglioso

che stava mostrando. Avrebbe dovuto cavarmi gli occhi, chiamare

aiuto o qualcosa di simile. Invece si mostrava assai sportiva. Mi

studiò a lungo con i suoi bellissimi occhi cangianti.

— Non siete un disertore — disse infine. — Non so chi siate,

ma sono sicura che...

— Brava, andate dal capoclasse che vi assegnerà un bel voto.

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— Ma cosa siete? Un gangster? Non ne avete l'aria, direi. Op-

pure uno svitato?

— Parlate molto bene l'americano, per essere tedesca.

— Infatti vado sempre a vedere le vostre pellicole in edizione

originale, tanto per tenermi in esercizio.

— E ora datemi il vostro nome e il vostro recapito, così vi

manderò il rimborso per la macchina distrutta.

Ricominciò a studiarmi bene, come se fossi un esemplare raro

e incredibile sotto la lente di un microscopio. Mi sarebbe piaciuto

avere il tempo di starmene un po' in sua compagnia. Non era soltan-

to bella. Aveva pure un'aria divertita e strafottente, a dispetto

dell'emozione provata. Poteva anche essere un'incosciente, ma...

— Non riesco ancora a crederci — disse infine scuotendo il

capo. — Quel che è accaduto lo so, l'ho visto con i miei occhi. E ne

sono stata pure protagonista. Ma non riesco a crederci. E adesso mi

offrite il rimborso per la macchina distrutta, come se mi aveste

smagliato una calza o fatto uno strappo in una manica. Però non mi

dite nulla di voi, né mi spiegate cosa diavolo...

— Tesoro mio, anzitutto non ho tempo — le dissi un pochino

spazientito. Avevo una dannata fretta davvero, infatti. — Ma se mi

date il vostro nome e indirizzo sarete rimborsata senz'altro.

Scosse il capo ancora una volta, come se volesse schiarirsi le

idee.

— Non so proprio perché — disse infine — ma credo che lo

farete davvero.

— Ho una faccia che ispira fiducia — ribattei con un sorriso

un po' fatuo.

— No, avete una faccia affascinante — mi corresse. — Ma

potreste essere chiunque, da un angelo vendicatore a un superladro

di gioielli.

— Decidete voi, bellezza. Ma ora datemi il vostro nome per-

ché sono già maledettamente in ritardo.

— Mi chiamo Lisa. Lisa Huffmann. La macchina appartiene a

mia zia ed è intestata a lei. Io sono qui solo di passaggio, ma se

manderete l'assegno a me glielo girerò. Dunque, Lisa Huffmann,

Kaiserlautern Strasse n. 300.

— Contateci.

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— La cifra corrisponde a cinquemilacinquecentoquarantasei

dollari americani — mi annunciò tranquilla. — Era una macchina

nuovissima.

— D'accordo. — Osservandola mi venne voglia di incontrarla

ancora, ma non ero in grado di ripromettermelo.

— Inoltre c'erano nove dollari e trenta cents di provviste che

mi toccherà ricomprare.

— Cara bambina, se appena appena mi sarà possibile, vi por-

terò i quattrini di persona — le promisi con una risata.

Poi la lasciai là sull'angolo e feci un cenno ad un tassì che

passava. Mentre l'auto si rimetteva in moto le feci un cenno di salu-

to agitando il braccio. Non me lo restituì. Se ne stette a fissarmi a

braccia conserte. Mi avrebbe deluso se avesse agitato il braccio

come una scioccherella.





4


Il quartier generale dell'AXE a Berlino Ovest aveva una copertura

legittima sempre, e nessuno, all'infuori di un paio di membri dell'a-

genzia, sospettava che là dentro si svolgessero attività estranee a

quella che figurava sulla targa. Inoltre veniva presa la precauzione

supplementare di cambiar sede e "attività" ogni nove mesi. I capoc-

cioni dell'AXE venivano informati dello spostamento ogni volta, e

delle necessarie parole d'ordine che bisognava usare nonché delle

procedure per farsi ricevere.

Scesi dal tassì e mentre pagavo diedi un'occhiata al modesto

palazzetto d'uffici. A lato del portone figurava una fila di targhe. Il

mio sguardo si soffermò sulla prima in basso, che annunciava:

"BERLIN BALLET SCHULE". Sotto, a lettere più piccole, si leg-

geva: "Direktor-Herr Doktor Prellhaus".

Sorrisi. Si trattava certo di Howie Prailler. Howie aveva il

compito di stabilire e mantenere tutte le coperture dell'AXE sul tea-

tro europeo. Aveva una linea speciale di contatti e uno specialisti-

mo talento per allacciarli. Lo avevo incontrato un paio di volte in

passato.

Presi l'ascensore e mi ritrovai in un grande stanzone illumina-

to dove una quindicina di giovani Fräulein dai dodici ai vent'anni si

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allenavano a piegamenti e spaccate ineccepibili, inchini e piroette

sulle punte. Vidi che c'erano pure quattro ragazzetti, e tre insegnan-

ti, due maschi e una femmina. Indossavano tutti quanti la calzama-

glia e lavoravano di lena. Il mio ingresso passò inosservato a tutti

fuorché alla morettina che sedeva a un tavolo accanto all'uscio. Mi

fece un cenno e mi avvicinai.

— Desiderate?

— Ho appuntamento con Herr Doktor — le risposi. — Sono

venuto per quell'articolo sulla scuola.

Fui molto accurato, perché i tedeschi tengono moltissimo ai

titoli e alle qualifiche. Se uno è Herr Doktor, guai a voi se non lo

chiamate così. In Europa si usa ancora dare importanza a certe cose.

Credo che sia un retaggio dei tempi in cui i titoli significavano

parecchio.

La donna sollevò il ricevitore, premette un pulsante e parlò

con qualcuno. Poi mi guardò e si degnò di sorridermi con un angolo

delle labbra.

— Entrate pure — mi concesse. — L'altro signore dello studio

fotografico è già arrivato. E' in fondo al corridoio, penultima porta.

Seguii il suo sguardo e intravvidi una porta aperta nella parete

opposta che conduceva appunto in un corridoio stretto. Scostando

fanciulle piroettanti e inciampando in qualche piede, riuscii a farmi

largo tra le ballerine in erba e a imboccare il passaggio e trovare l'u-

scio indicato, che si apriva su di un piccolo ufficio. Bastò un'oc-

chiata rapida all'isolamento dei muri e del soffitto per capire che là

dentro nessuno ci avrebbe sentiti. Hawk stava sprofondato in una

poltrona di cuoio e Howie Prailler era dietro la scrivania. La do-

manda che il vecchio mi rivolse subito mi diede l'idea ancora una

volta della sua esperienza, della sua preoccupazione, e dell'ansia che

aveva provato nei miei riguardi.

— Cos'è accaduto?

Rivolsi un rapido cenno di saluto a Howie, che rispose con un

sorriso altrettanto rapido. Pure lui aveva l'aria preoccupata.

— Avevo degli angeli custodi — spiegai a Hawk per giustifi-

care il ritardo.

— Accidenti, così presto? — mi domandò senza mutare

espressione. Soltanto la voce denunciava il suo stupore incredulo.

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— E' proprio quello che mi sono detto anch'io — gli risposi.

— E prima di venir qui li avete seminati, immagino.

— Macché, sono fuori che mi aspettano. Ho promesso loro

che vi avrei condotto fuori con me.

A volte lo trovavo irritante, quando diceva delle cose ovvie.

Ma lui ignorò il mio sarcasmo. Lo faceva sempre quando capiva che

volevo prenderlo in giro.

— Come avete fatto a seminarli?

— Sono convinti, almeno per ora, che abbia fatto male i miei

calcoli nell'attraversare in macchina i binari dell'espresso Berlino-

Amburgo.

— Cosa?

Gli raccontai l'accaduto e lui mi ascoltò con la massima atten-

zione sino alla fine.

— Per un pelo, Numero Tre — commentò.

— Per una minuscola frazione longitudinale di pelo, ad essere

esatti — convenni. — Vorrei tanto sapere quando hanno cominciato

a pedinarmi. Io me ne sono accorto solo qui, ma può darsi...

— Vorrei saperlo anch'io — ribadì Hawk. — Possiamo capire

come abbiano fatto a beccare Ted Dennison che lavorava in Germa-

nia, ma non riesco a immaginare perché vi hanno trovato e pedinato

così presto. Non ancora, perlomeno. E la cosa mi dà un gran fasti-

dio, a dire il vero.

— Non posso negare che dà fastidio pure a me — borbottai.

Howie Prailler trattenne un sorriso, ma gli occhi d'acciaio di

Hawk si mantennero gelidi come sempre.

— Sedete, Nick — disse infine. — E' meglio che vi dica quel

che abbiamo appreso sino a questo momento. Più rifletto su questa

faccenda e meno mi piace. Vi dice nulla il nome di Heinrich Dreis-

sig?

Qualcosa sapevo, di quel tipo, giusto quel tanto che un qualsi-

asi lettore di giornali riesca ad apprendere.

— Se non erro è quel capo di quel nuovo movimento politico

tedesco, no? "NSH" o qualcosa di simile.

— Giusto. Un movimento di estrema destra che si fa chiamare

"Neue Stadt Herrenvolk Partei"; ed è inutile che ve ne traduca il si-

gnificato, vero?

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— Sì, il Partito Popolare del Nuovo Stato.

Era una versione un po' arbitraria perché in inglese non esiste

una parola che equivale a "Herrenvolk". I tedeschi, con la loro pas-

sione per le parole composte, riuscivano a darle un significato

particolare, ma "Signori dei Popolo" avrebbe fatto ridere in qualun-

que lingua. Così pure "Elite di popolo", che oltre a tutto non era

nemmeno appropriato. Per i tedeschi però, e per chiunque li cono-

scesse abbastanza, voleva dire "popolo superiore". Il che puzzava

assai di quella vecchia lagna hitleriana sulla razza superiore senza

proprio dirlo apertamente. Un delicato eufemismo politico, insom-

ma. In parole povere, nazismo.

— Bene, adesso vi illustro un po' la faccenda, tanto per chia-

rirvi le idee — continuò Hawk. — Questo Heinrich Dreissig e il suo

NSH circolano da qualche tempo sotto le spoglie di un gruppo ausi-

liario. Ma sette od otto mesi fa hanno cominciato a uscire dalle

quinte e ad alzare la crestina. Adesso si trovano in pieno palcosce-

nico e si agitano mica male. Hanno smesso di far la parte delle

comparse e hanno intonato il coro greco. Nelle ultime elezioni han-

no vinto una quarantina di seggi al "Bundestag" grazie alla campa-

gna efficace che hanno condotto. Può anche non sembrarvi gran

che, ma quaranta seggi su quattrocentonovantano-ve rappresentano

quasi il dieci per cento. Prima ne avevano soltanto tre, quindi hanno

fatto un bel balzo. Voi che sapete come va la politica in casa nostra,

non faticherete a indovinare cosa ci vuole per conquistarsi tanti voti.

— Certo che lo indovino. Ci vogliono tanti bei soldoni, ma

tanti.

— Proprio così. — convenne Hawk. — E da allora hanno tri-

plicato il numero degli iscritti, hanno continuato a farsi propaganda

ed hanno migliorato ancora la loro posizione. Il bravo Dreissig ha

devoluto gran parte del suo tempo ai discorsi politici, che si sono

fatti sempre più aspri e aggressivi. Vedete, questo tizio ed il suo

partito ci fanno paura, e per diversi motivi. Sappiamo che sono di

idee estremiste, nazionalistiche all'eccesso. Abbiamo capito benis-

simo che si tratta di neo-nazisti e immaginiamo che siano troppo

furbi per buttarsi nella mischia e che preferiscano lavorare sott'ac-

qua, almeno sino a quando non saranno pronti a fare una mossa

decisiva e di sicuro successo. Sappiamo pure che potrebbero scon-

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volgere l'equilibrio delicatissimo delle relazioni europee nonché

quello delle relazioni tra noi e i russi e tra est ed ovest. Questo equi-

librio è assai fragile e basta un niente per farlo precipitare. La

nascita e il successo di un partito nazista forte potrebbe provocare

un'infinità di ripercussioni dovute alla paura, al sospetto o a un erro-

re di valutazione. E noi non possiamo permetterlo. Ci consta che

l'NSH e Dreissig stanno preparando un colpo, e dobbiamo scoprirne

la natura. Ecco perché è essenziale cercar di sapere dove si procura-

no tanto denaro. Chi li finanzia? Conoscere la sorgente di quei

quattrini ci aiuterà a conoscere anche i loro piani.

— Ted ci era riuscito dunque, e stava per passarmi le infor-

mazioni raccolte — conclusi.

— Proprio così, Numero Tre — rispose Hawk. — E hanno

fatto in modo che non riuscisse a trasmettervele. Però ho la speranza

che un'altra persona sia a conoscenza di parecchie cose. Anzi, sono

quasi certo che sia stato lui a informare Ted Dennison. Si tratta di

un nostro agente che opera nella Germania Orientale. Uno di quelli

che teniamo a "dormire". Non possiamo rischiare di trasferirlo. Per-

ciò dovrete andare voi a fargli visita.

— Mi consta che i sovietici controllano assai bene il traffico

da e per Berlino-Est, perciò sarà necessario far molta attenzione —

osservai.

— E' vero. Questo è il più grosso problema da affrontare —

convenne Hawk. — Come farvi penetrare oltre il muro senza destar

sospetti. Questa faccenda è schizzata fuori così all'improvviso che

non abbiamo ancora avuto il tempo di pensarci su. Ma forse il vo-

stro cervellino fertile butterà fuori un paio di idee apprezzabili.

Howie sarà in grado di procurarvi tutti i documenti falsi che vi pos-

sono occorrere; non è affatto difficile. Ciò che conta è trovare un

motivo plausibile, così non vi guarderanno con troppo sospetto alla

Porta di Brandeburgo, né vi terranno d'occhio una volta a Berlino-

Est. Howie studierà anche questo particolare. Domattina vi vedrete

ancora, voi due, e prenderete gli ultimi accordi. Io questa sera debbo

prendere l'aereo delle sei a Tempelhof.

Hawk si alzò.

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— D'ora in poi il pesce è vostro e vi toccherà arrangiarvi a

friggerlo — mi disse. — Dobbiamo sapere ad ogni costo chi finan-

zia quel Dreissig, e dopo sapremo che progetti sta covando.

— Un momento, prima di andarvene firmatemi un assegno

per la macchina di quella ragazza.

— Ve lo manderò da Washington — promise lui. — Mi oc-

corre l'autorizzazione della tesoreria, e debbo fare una richiesta

regolare di fondi. Diamine, non sono autorizzato a circolare per il

mondo firmando assegni per cinquemila dollari!

— Sapete che potete farlo benissimo — ribattei con un som-

setto. — Non mettetevi a creare delle difficoltà che non esistono, vi

prego. Se non fosse per quella macchina che ho dovuto distruggere

di proposito, non sarei qui. Volete proprio mettervi a cavillare per

poche migliaia di dollari?

Non ignoravo infatti che l'AXE era sempre in grado di racco-

gliere fondi ovunque in caso di emergenza. E le emergenze erano

parecchie: la fretta, la necessità di comprare certe testimonianze, o

quella di allungare alcune bustarelle impreviste; senza contare vari

imponderabili che potevano sorgere da un momento all'altro, come

quello della Mercedes sacrificata di Lisa Huffmann. A questo scopo

una banca svizzera custodiva un deposito che copriva il fabbisogno

dell'AXE per l'area europea. Perciò era inutile che mi venisse a rac-

contare delle storie da povero poverello. Ma lui ci provava sempre,

anche se non attaccava. In fondo questa era la ragione per cui anda-

vamo sempre d'accordo. Entrambi cercavamo a turno di batterci l'un

l'altro in furberia, ma il nostro era diventato una sorta di passatempo

sportivo, e da buoni sportivi non ci mettevamo alcuna cattiveria. La

nostra era una gara sottile, la gara tra due cervelli non comuni che si

rispettano a vicenda. Sapevo che Hawk era sempre riluttante a scia-

lacquare i fondi dell'AXE per non incoraggiare il suo gregge a

comportarsi in modo poco riguardoso verso i quattrini. Ma non c'era

mai nulla di personale in quell'atteggiamento. Sapeva benissimo che

i suoi operatori non buttavano via i soldi per principio o per incuria

o per capriccio. No, penso piuttosto che la sua parsimonia fosse più

che altro dovuta al ricordo dell'educazione rigida che gli avevano

dato nella Nuova Inghilterra.

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— Perché non vi siete pescata una ragazza con una Volkswa-

gen? — bofonchiò infine, tirando fuori il libretto degli assegni. —

Dovreste cercare di scordarvi un po' dei vostri gusti costosi.

— Oh, lo farò senz'altro. Non appena me ne sarò andato all'al-

tro mondo, vi assicuro che i miei gusti diventeranno semplicissimi.

Prima che scrivesse la cifra sull'assegno gli dissi che doveva

aggiungervi pure i nove dollari e trenta di provviste, e lui alzò gli

occhi a fissarmi.

— Be', siamo fortunati — commentai.

— In che senso? — mi domandò piano, sbirciandomi sempre

di sotto le lenti.

— Avrebbe potuto far compere al "Der Deutsche" che è l'e-

quivalente del nostro Tiffany.

Hawk mi tese l'assegno.

— Immagino che dovrei essere felice perché non siete morto

— disse in tono secco. — Be', la prossima volta cercate di stare un

po' più attento.

Da parte di Hawk questa era già una vivissima prova d'affetto,

e assentii. Il vecchio in fondo non mancava di sentimento. Solo che

lo nascondeva così bene da costringervi a far dei sondaggi per sco-

varlo fuori.

Salutai Howie Prailler e tornai a farmi largo tra le ballerine

per andarmene. Nell'intascare l'assegno avevo sfiorato con le dita la

chiave di Helga. Subito pensai alla Vichinga bionda. Bene, se dove-

vo ritrovarmi l'indomani con Howie ero costretto a trattenermi per

la notte. Mi veniva dunque offerta l'opportunità di passare qualche

ora con lei. Niente male come idea. E poiché dovevo escogitare il

sistema per infilarmi oltre il Muro, chissà che la ragazza non fosse

in grado di aiutarmi in qualche modo. Abitava lì e non sembrava af-

fatto stupida.

Ma prima dovevo occuparmi di Lisa Huffmann. Questa evocò

una diversa serie di riflessioni. Avevo trascorso ben poco tempo con

lei, e in verità si era trattato di un'avventura ben poco romantica,

date le circostanze. Però quella figliola aveva mostrato una padro-

nanza di sé e tanto buon gusto da affascinare anche la mente, oltre

che i sensi. Mentre Helga... be', Helga era un corpo e basta. Era riu-

scita a sconcertarmi un po', dopo l'amplesso, e c'era ancora qualcosa

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in lei che mi lasciava insoddisfatto. Ma nulla che andasse in profon-

dità.

Oltrepassai a piedi alcuni isolati e tenni gli occhi ben aperti,

memore della passata avventura con gli angeli custodi. Accertatomi

che nessuno mi seguiva, fermai un tassì di passaggio e vi salii.

Ammirai, le vetrine eleganti della Kurfürstendamm che mi sfilava-

no ai lati; erano simili a quelle di tutte le capitali del mondo, salvo il

fatto che Berlino non era più una capitale, anche se da questa parte

ne aveva mantenuto il carattere. L'opera di ricostruzione era davve-

ro fantastica, aveva del miracoloso. Alla fine della seconda guerra

mondiale il novanta per cento almeno degli edifici di quella via era-

no distrutti o gravemente danneggiati, e tutte le strade sconvolte.

Ora gli edifici erano risorti, non solo, ma avevano costruito duecen-

tomila case nuove. Ogni frammento utilizzabile era servito alla

ricostruzione. La città era davvero una fenice risorta dalle proprie

ceneri, un po' come Rotterdam – vittima d'un nemico diverso, ma

altrettanto martirizzata.

Non potei fare a meno di rivolgermi qualche domanda su

Heinrich Dreissig e il suo partito neo-nazista. Era impensabile che

la Germania odierna permettesse a quella fenice di odio di risorgere

dal passato. Molti del resto non riuscivano a credere che certe cose

fossero accadute. Però erano accadute davvero. E i tedeschi erano

sempre tedeschi, con tutto il loro inguaribile revanscismo e la loro

romantica follia.

Al n. 300 di Kaiserlautern Strasse scesi dal tassì e mi trovai di

fronte a una casa piuttosto modesta, da ceto medio. Diedi un'oc-

chiata alle cassette della posta nell'androne. Notai un cartoncino

applicato con lo scotch-tape che portava i nomi di Huffmann e

Detweiner e andai a suonare alla porta corrispondente.

Venne ad aprirmi lei in persona. Aveva un vestito bianco-cre-

ma, di stoffa morbida, che le aderiva alla figura in modo delizioso

accentuando la sua linea snella da mannequin. L'abito metteva in

mostra pure i seni rivolti all'insù, piccoli e perfetti. Quando mi rico-

nobbe spalancò gli occhi e scosse il capo.

— Sorpresa? — le domandai con un sorriso.

— Be', sì e no... — mi rispose. — Certo non mi aspettavo di

rivedervi così presto.

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— Purtroppo non ho molto tempo — le dissi porgendole l'as-

segno. — Vi ringrazio ancora per avermi prestato la macchina.

— E' un modo di dire come un altro.

Lisa Huffmann esaminò il pezzetto di carta con una lieve ruga

di perplessità sulla fronte liscia. Era impersonale, un numero che

corrispondeva ad un deposito numerato in una banca svizzera. Im-

possibile capire chi lo emetteva. Notando la sua incertezza la

rassicurai.

— Non è un assegno fasullo.

— Grazie — mi rispose, poi mi studiò da capo a piedi con

evidente curiosità. — E voi siete sempre l'uomo del mistero, non è

così? Non conosco nemmeno il vostro nome. E' sempre verboten?

Risi.

— Credo di no. Mi chiamo Nick. Nick Carter.

Avrei voluto dirle dell'altro. Avrei voluto pure trattenermi un

pochino, ma se l'avessi fatto le cose si sarebbero complicate ancor

di più. Per ora bastava Helga. Inoltre avevo una missione da com-

piere che non mi lasciava troppo tempo disponibile. Ma avevo una

gran voglia di rivedere quella bella creatura.

— Noterete che non ho dimenticato di includere il danaro del-

le provviste — le dissi tutto compunto.

— Sì, ho visto.

— Sentite, vi assicuro che non appena mi sarà possibile vi

spiegherò tutto, ma sino a quando l'occasione non si presenterà

dovrò continuare a fare il misterioso. Vogliamo accantonare, nell'at-

tesa?

— D'accordo. Sino a quando?

— Vorrei potervi rispondere, ma purtroppo non ne sono in

grado. Però mi riprometto di farmi vivo, prima o poi. Vi tratterrete

un po' da vostra zia?

— Ancora una settimana circa. Ma vi confesso che se aveste

bisogno di sei mesi per raccontarmi le vostre straordinarie avventu-

re, sarei tentata di aspettare, tanto sono curiosa.

Si vedeva che era curiosa. Del resto, essendo femmina... Si

controllava benissimo, ma avevo l'impressione di vedere le rotelli-

ne che giravano svelte nella sua scatola cranica. E vedevo la curiosi-

tà anche nei suoi occhi.

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— Siete un tipo davvero insolito, Lisa Huffmann — dichiarai

infine con una nota di ammirazione nella voce. — Non avete pro-

prio nulla della Fräulein normale.

— Oh, quanto a questo, vi posso garantire che neanche voi

sembrate il tipo dell'americano medio.

Mi inchinai e mi volsi per andarmene. Scesi un paio di gradi-

ni, poi li risalii con un balzo, l'afferrai e la strinsi tra le braccia. La

baciai, e per un po' le sue labbra rimasero fredde. Non si ritrasse ma

non rispose nemmeno al bacio. Solo per un attimo le socchiuse un

poco, come se volesse darmi un'idea di quello che avrebbe potuto

essere.

— Non volevo che mi dimenticaste — le dissi a guisa di spie-

gazione.

— Be', non siete un tipo facile da scordare, direi. Anche senza

questo. — Nei suoi occhi danzò un lampo lievemente motteggiato-

re. — Un uomo come voi si impone da sé.

Stavolta me ne andai. Sul pianerottolo mi girai a sorriderle, e

lei abbozzò un cenno di saluto con la mano, un cenno breve e riser-

vato, solo un piccolo guizzo delle dita. Mi sentii meglio quando

raggiunsi il marciapiede di Kaiserlautern Strasse. Come dovrebbero

sentirsi tutte le persone oneste che hanno pagato un debito. Mi rin-

cresceva sempre coinvolgere gli innocenti nello sporco gioco che la

mia professione mi costringeva a fare. Spesso era necessario, tutta-

via non lo facevo mai volentieri, né lo nascondevo al mio capo, che

mi accusava di arretratezza e mi prendeva un po' in giro quando ne

discutevo con lui. "Gli innocenti non esistono più" mi diceva. "Oggi

come oggi sono tutti coinvolti. Qualcuno se ne rende conto e qual-

cuno no, ma ci stanno dentro tutti lo stesso."

In un certo senso era un'ironia, perché proprio lì in Germania

Adolf Hitler aveva dichiarato a gran voce che i borghesi non esiste-

vano più, che tutti in un modo o nell'altro erano soldati del Terzo

Reich, dalle massaie ai bimbi, dai contadini agli operai, sino alle

truppe in prima linea. I sovietici e i comunisti cinesi si erano affret-

tati ad abbracciare con zelo quella teoria che serviva benissimo ai

loro scopi. In tal modo non c'era più bisogno delle decisioni morali.

Con una mentalità del genere era facile e giustificabile far saltare in

aria un battello pieno di passeggeri per colpire un solo uomo. Hawk

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lo sapeva benissimo, vecchio com'era del mestiere, e affermava che

dovevamo guardare le cose dal loro punto di vista per capire i nemi-

ci e spiegarci le loro azioni.

Intanto che riflettevo sui russi e sui cinesi decisi di andare a

piedi a casa di Helga. Mi domandai chi dei due finanziava Dreissig

e il suo partito. Mi sembrava un po' balorda la teoria che i comunisti

agevolassero la rinascita di un movimento neo-nazista. Ma ormai i

politicanti di tutto il mondo si erano fatti così machiavellici che non

c'era più da stupirsi di nulla. Era persino possibile che gli uni o gli

altri fossero così in gamba da appoggiarli per poi avere un pretesto

per intervenire. Quanto a machiavellismo, i cinesi erano forse più

sospetti dei sovietici. Avevano tanti di quegli agenti sparsi per il

mondo che riuscivano ad avvelenare l'esistenza sia a noi sia ai loro

ex compagni russi. Agivano in base alla vecchia teoria secondo la

quale in mezzo al caos si operava meglio e con maggior successo.

Poi c'era la possibilità tutt'altro che remota di un gruppo di grossi

magnati dell'industria che finanziasse Dreissig con lo scopo di in-

staurare ancora una volta nella Madre Patria il vecchio sistema.

Germania unita, naturalmente, Germania che sventolava la bandiera

infuocata dell'ancestrale nazionalismo militaresco alla prussiana.

Di industrialoni nostalgici ne erano rimasti parecchi. Forse era

quella la teoria più accettabile, tutto sommato. Che diamine, c'è più

nazionalismo nel mondo oggi di quanto non ne esistesse prima della

guerra. Su una grossa potenza che parla in termini di internazionali-

smo, ce ne sono almeno dieci, piccole o nuove, che sbandierano a

gran voce i propri sentimenti patriottici. Non c'era quindi da stupirsi

che fossero i tedeschi ad esibirli. Visto il passato dei bravi teutoni e

la storia della Germania, non era soltanto naturale, ma addirittura

doveroso.

Buffo, i due lati più salienti del carattere nazionale tedesco si

potevano sommare in due tipi di musica: la marcia e il valzer. Li

amavano con la stessa passione e reagivano ad entrambi con la me-

desima intensità.

Dopo l'ultima guerra avevamo fatto in modo che fosse solo il

valzer a caratterizzare l'animo tedesco, ma ora Dreissig stava per

rimettere di moda le marce. E se ci metteva tanto bel fiato, nei suoi

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tromboni, la gente si sarebbe rimessa a marciare di nuovo. In fondo

non aspettava che il la.

Giunsi davanti alla casa di Helga e constatai che abitava al

quarto piano senza ascensore.

Decisi di bussare alla sua porta. Mi aveva dato la chiave, ma

forse il suo era stato solo un gesto formale.





5


Sembrava proprio la giornata delle sorprese, quella. L'autentico sba-

lordimento che scorsi negli occhi di Helga, quando venne ad

aprirmi, annullò addirittura lo stupore che Lisa aveva manifestato.

Ma subito, prima ancora che io potessi aprir bocca, gettò un grido di

gioia e mi gettò le braccia al collo, soffocandomi in una stretta da

mamma-orsa e premendomi i seni imponenti contro il petto. Quan-

do infine si ritrasse, vidi nei suoi occhi ancora un'ombra di

incredulità.

— Ma scusa, non mi avevi dato la chiave? — le domandai un

po' sconcertato.

— Sì, ma non credevo che saresti venuto davvero — mi rispo-

se, invitandomi ad entrare.

— E perché?

— Be', voi americani avete un famoso detto, "Prendile e la-

sciale", non è vero? E io pensavo che tu fossi passato ad altre

avventure.

— Ti sottovaluti — la rassicurai. — E del resto non si deve

mai dar troppo credito ai detti popolari. Si dà il caso che io sia un

tipo fedele.

Mi si strinse addosso e mi posò il capo sulla spalla.

— Oh, sono molto felice che tu sia qui — mi disse con voce

rauca.

Le misi un braccio attorno alle spalle e diedi un'occhiata rapi-

da all'alloggio. Era piccolo e piuttosto borghese, del tutto privo di

personalità. Aveva l'aria di essere un appartamentino ammobiliato

senza una minima aggiunta di note personali. La cosa mi stupì.

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— Puoi fermarti un po'? — mi domandò Helga, riportando la

mia attenzione su quei seni superbi che cercavano di perforarmi lo

stomaco.

— Soltanto questa notte.

— Allora dovremo cercare di trarne il meglio, da questa sin-

gola notte — decise. Ora i suoi occhi si erano incupiti ed io vi

ritrovai quella luce torbida di desiderio animalesco. Cominciò subi-

to a farmi un po' di massaggi sulla pelle, infilandomi le dita entro la

camicia e alternando le carezze alle strizzatine.

— Stavo per cenare. — Sospirò, un po' mortificata. — Non ho

altro che del brafwurst, purtroppo, ma ce n'è abbastanza per due.

Dovrai accontentarti. E dopo ci occuperemo dell' altro appetito.

Si allontanò ed io la seguii nella cucina e mi misi a tavola con

lei.

Mentre mangiava mi parlò della sua giornata in ufficio e mi

domandò cos'avevo fatto io. Le dissi che avevo compiuto alcune

visite d'affari, ma che avevo cercato di procurarmi un po' di tempo

libero per andare a trovarla. Mi versò della birra, e dopo il pasto

anche un bicchierino di "schnapps". Mi sembrò di bere fuoco liqui-

do. Lei lo buttò giù con la massima disinvoltura. Notai che si era già

slacciata i bottoni della camicetta. Stavolta portava un reggiseno di

pizzo e lo stava mettendo in mostra. Le sue intenzioni erano inequi-

vocabili. Terminato di bere, si alzò e mi si avvicinò, fermandosi a

strusciarmi quasi il volto con quel davanzale superbo. Mi passò le

dita tra i capelli e mi parlò con voce da gattona.

— Sai, per tutto il giorno non ho fatto che pensare alla notte

scorsa — disse, sempre facendomi annusare colline e valli. — Sei

stato così meraviglioso... — mi prese il capo tra le mani e mi fissò

negli occhi. — E sei così diverso da tutti, così speciale. Sai, io non...

non mi attacco mai a nessuno, ho sempre avuto delle avventure di

passaggio, brevissime.

— Amali e lasciali, eh?

Ne ero convinto. Infatti me lo aveva dimostrato la sera prima,

piantandomi in asso a quel modo.

Le slacciai il reggiseno e cominciai ad accarezzarle i capezzo-

li. Helga mugolò.

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— Mi sono detta che anche stavolta sarebbe stata una cosa da

dimenticare — disse con voce tremante. — Ma appena ti ho rivi-

sto... il ricordo di ieri mi ha soverchiato. Oh, Nick, ti voglio ancora!

Anch'io mi sentii soverchiato dalla sensualità violenta di quel-

la femmina che non riusciva a controllare il proprio desiderio e me

lo trasmetteva senza spreco di inutili pudori. Ma stavolta volevo ve-

dere se sarebbe andata diversamente, se sarei riuscito a possederla

senza provare quella fastidiosa sensazione di venir strumentalizzato

soltanto. Continuai apposta a prolungare i preliminari, e lei divenne

ansiosa, vibrò, mi incollò le labbra alle labbra, la persona alla per-

sona, mi sfiorò la pelle con un gioco sapiente delle dita.

Infine mi trascinò in una piccola stanza da letto e non accese

la luce. Solo dalla porta aperta un po' di riflesso dal soggiorno piov-

ve sul letto. Vidi che Helga si strappava di dosso la camicetta e la

faceva volare lontano. E mentre si svestiva frenetica continuava a

baciarmi con una furia febbrile.

E riecco quel bisogno, quella bramosia famelica che mi aveva

già impressionato il giorno prima. Ancora una volta mi dissi che

Helga faceva all'amore come se fosse stata sicura di morire all'in-

domani e volesse approfittare dell'oggi mettendoci tutta la forza

della disperazione. Non mi abbandonava, aggrediva con la rabbia di

un rapinatore a mano armata. La cosa mi stupiva, ma poiché la mia

assalitrice frattanto mi aveva aiutato a sfilarmi i pantaloni, mi decisi

a mandare al diavolo tutte le introspezioni e le psicoanalisi per col-

laborare. Il tempo di riflettere l'avrei avuto in seguito, se mai.

Terminato di svestirmi la osservai e vidi che stava sul letto

supina, con gli occhi chiusi. Non mi guardava, continuava ad ansare

e a rincorrere la meta con l'immaginazione. Quella meta di cui io

ero il mezzo, lo strumento. Come personalità non esistevo affatto.

Ne approfittai per avvolgere Wilhelmina e Hugo tra gli indumenti,

poi mi coricai al suo fianco. Ricominciai ad accarezzarla nei punti

più sensibili e lei gridò, sempre ad occhi chiusi, premendo le mie

mani sulla sua carne e agitandosi come un'ossessa. Poi mi si buttò

addosso, mi investi con tutta la sua mole, schiacciandomi come se

volesse distruggermi. Mi ritrovai la punta di un seno in bocca e

morsi. Poi presi il sopravvento io e le balzai addosso. Non fui. mol-

to gentile, questa volta. Non era proprio il caso di avere dei riguardi,

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visto come s'era scatenata nella sua furia erotica. La possedetti con

brutalità, una brutalità che lei apprezzò e continuò a sollecitare, in-

coraggiandomi con quei ritmici sussulti che infine si risolsero nel

famoso grido sorto dai precordi. Poi si irrigidì e ricadde all'indietro

sfinita. Io non mi mossi, e un momento dopo mi si aggrappò ancora,

mugolando:

— Non andartene, Nick, stai qui... Ti voglio, ti voglio, ti vo-

glio...

Non me ne andai. Helga non aprì gli occhi mentre la riportavo

una seconda volta verso le sommità vertiginose dell'estasi. Si limitò

a guaire, a scuotere la testa bionda a destra e a sinistra, a ridere e

gemere per un piacere che sembrava al di là della sua comprensione

e della sua capacità di assorbimento. Se si fosse trattato di un'altra

donna mi sarei sentito un po' sadico nel brutalizzarla in quel modo.

Ma con lei ero violento di proposito, perché non riuscivo a togliermi

quell'impressione che fosse lei a provocare tutto, anche le mie deli-

berate crudeltà. Più la seviziavo e più lei urlava di piacere, tuttavia

sentivo che c'era una parte del suo essere che non avrei mai rag-

giunto, neanche se l'avessi massacrata. A dispetto dei suoi ululati,

delle implorazioni che mi rivolgeva, io capivo che era sola. Era sola

e si stava sollazzando con un oggetto che per il momento le appar-

teneva e che dopo avrebbe buttato.

Ancora una volta mi resi conto che l'amplesso era incompleto

e ancora una volta mi sentii insoddisfatto, a dispetto del piacere fisi-

co che ne ricavavo. Era l'ennesima riprova che i sensi non hanno poi

molta importanza se non sono accompagnati da un minimo di emo-

zione. Però la sensualità di Helga era così oceanica che quasi

riusciva a riempire i vuoti emozionali. Quasi.

Infine si irrigidì, ebbe un ultimo sobbalzo quasi riluttante, esa-

lò il gemito classico della morte, cadde all'indietro sfinita. Stavolta

si addormentò di colpo.

Rimasi al suo fianco e mi addormentai anch'io. Qualche ora

dopo mi svegliai e la vidi rientrare dalla cucina. Stava morsicando

una mela, e quella figura nuda e opulenta che si stagliava contro il

vano illuminato della porta mi ricordò Eva, l'eterna Eva. Aveva

pure la mela, manco a farlo apposta. Sedette accanto a me, sul bor-

do del letto, e mi disse:

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— Fermati qui domani. Vado in ufficio solo al mattino, poi

potremo stare insieme.

— Non posso.

— Oh, perché? Hai tanto da fare? — mi chiese un po' imbron-

ciata.

— Debbo partire. Oh, a proposito, dovrei andare a Berlino

Est, ma preferirei farlo di straforo. Non sai come potrei trovare un

sistema per infilarmici di contrabbando?

— Vorresti entrare di là? — mi domandò, dando un altro mor-

so alla mela. — E perché mai?

— Debbo vedere un tale, per una faccenda personalissima. Ma

so che i bravi sovietici di questi tempi sono piuttosto tirchi in fatto

di permessi. E preferirei che non mi tenessero d'occhio.

— Vedo. Infatti sono severissimi. E non è facile ingannarli. —

Masticò un altro pezzo di mela e ci pensò sopra un attimo. —

Aspetta, forse io riesco a farti passare. Mi è venuto in mente...

— Sì? Mi faresti proprio un grande favore se conoscessi qual-

cuno in grado di aiutarmi.

— Ho un cugino che tutti i giorni passa di là con un camion di

viveri. Al posto di controllo lo conoscono perché ha il permesso dei

fornitori e va e viene di continuo. Ormai non guardano più con

scrupolo nemmeno le sue carte. Ha sempre un aiutante con sé.

Potrei dirgli di portarti con lui, al posto suo. Mi deve qualche favo-

re, e se gli telefono...

— Sarebbe una cosa grande, Helga! — esclamai con entusia-

smo sincero.

Lei si alzò per andare al telefono.

— Ora lo chiamo.

— Ma è troppo presto, cara! Non sono ancora le quattro del

mattino, quello ti manderà all'inferno. Aspettiamo un paio d'ore,

almeno.

— Hugo si alza sempre prestissimo perché va ai mercati ali-

mentari — mi spiegò dirigendosi verso la porta. Dovetti sorridere

nell'udire quel nome. Avevo anch'io un buon amico che si chiamava

Hugo. Non era un consanguineo nel senso esatto del termine, ma

avrei anche potuto chiamarlo così, vista la quantità di sangue che

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avevo sparso con il suo ausilio. — E poi debbo dargli il tempo di

avvertire il suo aiutante — continuò Helga dall'altra stanza.

Mi strinsi nelle spalle. In fin dei conti non era affar mio. Lei

conosceva le abitudini del cugino meglio di me, e se non le impor-

tava nulla di svegliarlo, tanto peggio per quel povero cristo. Io non

chiedevo che di passare dall'altra parte, in un modo o nell'altro, e mi

pareva di aver trovato la manna del cielo.

Sentii che formava il numero. Non attese molto. Poi disse:

— Pronto, Hugo? Salve, sono Helga. Ma sì, Helga Ruten. Va

bene, aspetto.

Immaginai che Hugo fosse andato a prendersi una vestaglia se

era balzato giù dal letto svestito. Un momento dopo Helga riprese:

— Sì, Hugo, sto bene. Ho bisogno di un favore da te. C'è un

mio amico, un americano, che vorrebbe infilarsi nel tuo camion per

entrare a Berlino Est. Sì... adesso è qui da me. Abbiamo parlato di

questa faccenda, e allora mi sono ricordata che tu ci vai tutti i giorni

e mi è venuto in mente che potresti portarci lui al posto del tuo aiu-

tante, quando entri con il camion. Che ne dici, ti sembra fattibile?

Ci fu un borbottio all'altro capo della linea. Ad un certo punto

lei lo interruppe.

— Sarebbe semplicissimo, no? Visto che ci andate sempre e

ormai conoscono te e il tuo camion... Il mio amico parla il tedesco

meglio di me e di te, nessuno lo sospetterà. Oh, bravo. D'accordo,

gli dico di salire sul camion che porta il nome di Hugo Schmidt sul-

la fiancata... Molto bene, ho capito. Ci sarà senz'altro. Hai capito

bene? Lo devi solo accompagnare di là. Poi lui se ne andrà per i fat-

ti suoi. D'accordo, allora? Grazie, Hugo. 'Wiedersehen.

Riattaccò e tornò in camera.

— Però mi devi promettere che se rientri in giornata verrai

subito qui.

Non feci fatica a promettere. Le ero molto riconoscente e non

avevo nulla in contrario a rivederla, se tutto andava bene.

— L'appuntamento è a un isolato dal posto di blocco della

Porta di Brandeburgo. Sulla fiancata del camion c'è il suo nome,

Hugo Schmidt. Mettiti in maniche di camicia, o se hai una specie di

tuta da lavoro, indossala, tanto per essere verosimile. Alle dieci in

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punto, va bene? Magari ti puoi accordare con lui anche per il rien-

tro. Lui torna qui nel pomeriggio.

L'abbracciai e le dissi:

— Non sai quanto ti sono grato, tesoro, perché non immagini

che grosso favore mi hai fatto. Al mio rientro ti ricompenserò

amandoti come non sei mai stata amata in vita tua. D'accordo?

Mi lanciò una strana occhiata e mi parve che le si contraessero

le pupille. Si sciolse subito dall'abbraccio e mormorò:

— Vado a dormire in soggiorno. Il divano è trasformabile e

ho sonno.

Mi guardò quasi con rancore.

— E' un peccato — disse infine.

— Cosa?

— Che tu debba andartene.

Mi volse le spalle, uscì e richiuse la porta. Una strana ragazza

davvero, mi dissi. Aveva qualcosa dentro che la infastidiva. Come

se ci fossero due persone in lei: la gatta in calore e un altro essere

remoto e freddo che non ero riuscito a penetrare.

Ma poiché non mi restavano molte ore di sonno, rimandai

ancora una volta le elucubrazioni psicologiche e mi tuffai in un bel

sonno.

Credevo che venisse Helga a svegliarmi, invece sobbalzai nel

peggiore dei modi quando una sveglia si mise a berciare nella stan-

za accanto.

Mi alzai per andare a spegnerla e mi accorsi di essere solo

nell'appartamento. Un bigliettino sul tavolo diceva:



"Sono andata in ufficio – Helga."



Ammazzala, che sforzo, bofonchiai. Non si poteva dire che

nei messaggi si mostrasse affettuosa o sprecasse qualche parola.

Andai a radermi, poi telefonai a Howie Prailler e gli comuni-

cai che ero stato fortunato e che avevo la possibilità di scivolare

oltre il muro. Ne fu contento quanto me, e mi fornì le informazioni

che ancora mi mancavano.

— Il nostro uomo sta al n. 79 di Warschau Strasse e si chiama

Klaus Jungmann. La parola d'ordine è semplice. — Me la riferì, ed

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io ascoltai con attenzione per fissarmela bene in testa, dato che non

intendevo prendere appunti. — Lo comunicherò subito a Hawk —

concluse Howie. — Per lui sarà un buongiorno assai augurale.

Comprai una piccola valigia di tela e vi cacciai dentro la giac-

ca, poi mi affrettai verso il famoso angolo a un isolato dalla Porta di

Brandeburgo. Avevo assunto l'aspetto di un normale lavoratore, se-

guendo i consigli di Helga, limitandomi a stare in maniche di

camicia e a togliermi la cravatta; mi tolsi pure i costosi bottoni da

polso per rimboccarmi le maniche. Non era un gran travestimento,

ma lì per lì non era possibile far di meglio. Forse mi avrebbero

scambiato per l'aiutante di un camionista.

Mentre aspettavo all'angolo che comparisse il mio accompa-

gnatore, mi dissi che dovevo essere grato a Helga per il suo aiuto.

Ma stamane il pensiero di Helga non attecchiva. Al suo posto conti-

nuava ad affacciarsi quello di Lisa Huffmann, con il suo faccino

spiritoso e quei modi controllati; un insieme che rinfrescava come

una brezzolina primaverile.

Non feci nemmeno in tempo a chiedermi perché mi ostinavo a

pensarci; dall'angolo spuntò un camion dalle fiancate scure. Vidi

subito il nome di Hugo Schmidt che spiccava vivace sul fondo cu-

po.

Notai la puntualità tutta teutonica; erano le dieci in punto, non

un minuto di più, non un minuto di meno. Mi avviai verso l'auto-

mezzo e il cugino di Helga si chinò subito ad aprirmi la portiera.

Era un tipo di mezza età dalla faccia rude e solcata, con un berretto

a visiera e una tuta blu da lavoro.

— Vi sono molto grato — gli dissi a guisa di presentazione.

Lui si limitò ad assentire e borbottò:

— Quella Helga, ha sempre qualcosa in ballo. Ma io non le

faccio domande. Ho imparato che è più consigliabile occuparmi dei

fatti miei.

Il traffico si era infittito al posto di controllo e adesso c'era

una coda piuttosto lunga di veicoli. Si trattava più che altro di traffi-

co commerciale, e la Volkspolizei della Germania rossa faceva un

veloce controllo dei documenti ogni volta che una delle macchine

arrivava. Notai il grosso cartello che figurava davanti alla porta.



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"ACHTUNG! SIE VERLASSEN

JETZT

WEST BERLIN!"



Tradussi mentalmente: "Attenzione, adesso uscite da Berlino

Ovest!" Suonava minaccioso in tutte e due le lingue. Ricordava il

famosissimo "lasciate ogni speranza" dantesco. Fu un po' come

penetrare in un altro mondo, infatti, tanto la diversità era evidente al

primo colpo d'occhio. Alla porta Hugo Schmidt si affacciò al fine-

strino e fece un cenno di saluto ai poliziotti comunisti, che risposero

al saluto e si affrettarono ad aprire. Passammo così. Fu una cosa

tanto semplice e rapida che rimasi sbalordito, poi risi.

— E' il vantaggio di chi passa ogni giorno — mi spiegò

Schmidt senza sorridere. Procedette per un buon tratto, poi si fermò

oltre l'angolo, dove non c'era alcun Vopo in grado di tenerlo d'oc-

chio.

— Dove possiamo vederci, per il rientro? — domandai a Hu-

go.

Dall'occhiata che mi lanciò intuii che non aveva pensato di

dovermi anche riportare indietro. Infine alzò le spalle e bofonchiò:

— Io torno alle quattro del pomeriggio. Se vi fate trovare in

questo punto...

— Ci sarò senz'altro. E ancora grazie infinite.

Osservai il camion che procedeva per la sua strada, poi attra-

versai l'importante arteria denominata Unter den Linden. Il viale

aveva un'aria sciatta di abbandono e di squallore. C'erano ancora

mucchi di macerie ai lati. Fermai un tassì di passaggio con un cenno

e dissi all'autista di condurmi a Warschau Strasse, una delle tante

vie alle quali i comunisti avevano cambiato nome. E poiché Varsa-

via era una delle grandi martiri della guerra, stavolta era sacrosanto

che le avessero dedicato una strada, anche se un turista d'altri tempi

avrebbe faticato a raccapezzarsi fra tante targhe nuove.

Scesi proprio all'imboccatura della via e mi incamminai a pie-

di tra una doppia fila di edifici grigiastri che mi ricordarono una

quantità di quartieri poveri degli Stati Uniti. Giunsi al numero 79 e

vidi la targhetta con il nome di Klaus Jungmann su una porta del

pianterreno. Sotto il nome figurava la professione di fotografo.

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Suonai il campanello e attesi. Mi pervenne un lieve ciabattare

dall'interno. Hawk mi aveva detto che Jungmann era un "dormien-

te", una di quelle spie che restano inutilizzate magari per anni e con

le quali ci si mette in contatto solo per certi scopi determinati.

All'opposto degli operatori internazionali come me, i "dormienti"

sono utilissimi proprio per la loro anonimità assoluta.

La porta si aprì e apparve un tipo alto e magro dalla faccia

malinconica e dai profondi occhi bruni. Indossava una tuta scolorita

e aveva in mano un pennellino da ritocco. Alle sue spalle scorsi un

locale zeppo di lampade, tavolo da disegno, scatole di colori e libri.

— Sì? Desiderate?

— Siete Klaus Jungmann? — gli domandai. — In persona?

Assentì un pochino perplesso e continuò ad osservarmi con

un'ombra di diffidenza. Poi mi domandò:

— In che cosa posso servirvi?

— Vorrei far ritoccare la fotografia di un uomo molto impor-

tante — gli dissi, usando le parole di codice che Howie mi aveva

suggerito. — Si chiama Dreissig. Mai sentito parlare di lui?

— Heinrich Dreissig? — mi domandò il fotografo con caute-

la.

— Dreissig, Dreissig, Dreissig — ribattei. — Tre volte più

strano di qualsiasi altra persona.

Klaus Jungmann sospirò e si strinse nelle spalle. Sedette su di

uno sgabello alto di fronte al tavolo da disegno. Poi mi osservò di

nuovo.

— Chi siete? — mi domandò infine. Glielo dissi, e lui spalan-

cò gli occhi.

— Sono davvero onorato. — Il suo tono era sincero. — Ma se

hanno mandato voi, vuol dire che è accaduto qualcosa a Dennison.

— Sono riusciti a raggiungerlo prima di me, purtroppo — gli

risposi. — Sapete cosa voleva darmi?

Jungmann assentì, e in quell'istante udimmo entrambi una

macchina che arrivava e frenava bruscamente, seguita da una se-

conda e da una terza. Diverse portiere vennero aperte e sbattute, e

diversi piedi pesanti, stile tedesco-invasore-1939-1945, rimbomba-

rono sul marciapiede. Jungmann spalancò gli ocelli e mi lanciò uno

sguardo interrogativo e spaurito. Mi accostai alla finestra e sbirciai

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tra le veneziane abbassate. Due tipi in borghese, uno dei quali però

armato di mitra, stavano arrivando. Chiaro che si dirigevano alla

porta di Jungmann.

— Figli di cani! — sibilai. — Ma come diavolo fanno a muo-

versi così in fretta? Perdio, debbono essere dei lettori del pensiero!

Non essendo dei poliziotti in uniforme, c'era da arguire che si

trattasse degli scagnozzi di Dreissig. Adesso non avevo il tempo di

spiegarmi una cosa così inspiegabile, perciò smisi di imprecare e

domandai a Jungmann:

— C'è un'uscita posteriore, qui?

— Sì, quell'uscio laggiù.

Mi precipitai da quella parte e mi volsi per accertarmi che mi

seguisse. Imboccai un lungo corridoio e lo percorsi sino in fondo.

Sfociava sul retro dell'edificio.

Ma, prima ancora che raggiungessi la porta, questa si spalancò

dall'esterno e apparvero due uomini armati di fucile automatico. Mi

buttai a terra e tirai giù anche Jungmann prima che aprissero il fuo-

co. Wilhelmina mi era già volata in mano e cominciai a sparare.

Uno dei due si piegò su se stesso come un temperino dopo la carez-

za di uno dei miei proiettili, e l'altro arretrò per cercar riparo dietro

l'uscio, per beccarci all'uscita, naturalmente. Mi volsi e tornai indie-

tro, ripercorrendo il corridoio con Jungmann alle spalle.

— Proviamo a salire sul tetto — gli gridai.

Eravamo quasi ai piedi delle scale, proprio di fronte all'allog-

gio del fotografo, quando i due armati di mitra piombarono dalla

parte anteriore sputando confetti all'impazzata. Con un guizzo rien-

trai nell'appartamento, tirandomi dietro Jungmann e chiusi la porta

con il piede. Sentii la serratura che scattava. L'avrebbero forata in

un momento, ma anche un momento può avere un gran valore, in

certe circostanze.

Piroettai sui tacchi quando mi pervenne un nugolo di vetri

infranti e vidi il muso nero di un fucile automatico che spuntava

dalla finestra verso strada. Gridai a Jungmann di gettarsi a terra, ma

lui esitò per un attimo, smarrito. L'arma sputò un arco di proiettili

mortali nella stanza. Vidi Jungmann che rabbrividiva, poi girava su

se stesso con una mano alla gola insanguinata. Cadde a terra, invece

di gettarsi, e ci rimase.

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Sparai un colpo verso la finestra ma senza troppe speranze di

successo. Invece mi pervenne un grugnito di dolore dal marciapiede

e udii il tonfo metallico dell'arma che cadeva. Frattanto una sventa-

gliata colpì la porta posteriore, ma quando piombarono dentro li

stavo aspettando. Tirai due colpi in successione così rapida che

risuonarono quasi simultanei. Si abbatterono insieme a faccia in giù

sul tavolato.

Aspettai un attimo con l'orecchio teso. Silenzio. Sapevo che

ce n'era ancora uno appostato sul retro. Non l'avevo dimenticato

affatto, ma mi rendevo pure conto che la sparatoria avrebbe fatto

accorrere la polizia. E non avevo nessuna voglia di affrontare anche

quella. Era stata una faccenda rapida, furibonda e chiassosa, e ormai

qualcuno aveva telefonato ai Vopo di sicuro.

Mi chinai su Jungmann. Aveva la gola quasi squarciata, ma

era ancora vivo. Appena appena, ma vivo. Presi un asciugamano

che pendeva dalla spalliera di una seggiola e lo usai per tamponargli

la ferita. Si inzuppò subito di sangue. Non era possibile che parlas-

se, poveraccio, ma aveva gli occhi aperti e forse avrebbe avuto la

forza di farmi qualche cenno. Avvicinai la faccia alla sua.

— Mi sentite, Klaus?

Annuì debolmente.

— Voglio sapere chi finanzia Dreissig. Si tratta dei sovietici?

Una scossa del capo impercettibile che voleva dire no. Non

c'erano dubbi.

Passai alla seconda domanda.

— Si tratta dei cinesi? Sono loro che lo appoggiano e gli dan-

no quattrini?

Altra leggerissima scossa di diniego. Frattanto l'asciugamano

si era inzuppato del tutto. Il tempo e la vita di Klaus Jungmann se

ne stavano andando insieme. Avevo una fretta angosciosa, ma anco-

ra non avevo risolto nulla.

— Qualcuno in Germania? — domandai con ansia frenetica.

— Ricchi nazionalisti nostalgici? Oppure una cricca di militari?

Ancora una volta i suoi occhi mi dissero di no. Arretrai quan-

do lo vidi sollevare a fatica un braccio tremulo. Con un dito mi

indicò un angolo della stanza dove un secchio rosso da incendio,

pieno di sabbia, spiccava in modo notevole. Seguii con lo sguardo

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quel dito puntato. Non c'erano dubbi, mi indicava proprio il secchio

di sabbia.

Corrugai la fronte. Guardai il recipiente che non mi diceva

proprio nulla. Poi domandai:

— Il secchio di sabbia?

L'uomo assentì con un battito leggerissimo di palpebre, e subi-

to dopo gli occhi gli si annebbiarono e il capo gli ricadde all'in-

dietro. Ormai il povero Klaus Jungmann non avrebbe più risposto

ad alcuna domanda. Udii l'ululato delle sirene che si avvicinavano.

Bisognava filare al più presto.

Uscii dalla porta posteriore, scavalcando i due cadaveri. Erano

degli omaccioni biondi e squadrati, di tipo germanico. Purtroppo

non avevo tempo di perquisirli, quei bastardi maledetti che pareva-

no pieni di occhi e orecchi da tutte le parti. Se pensavo alla rapidità

con cui mi avevano raggiunto, fremevo ancora di rabbia.

Mi inerpicai di volata sino alla sommità dell'edificio e sollevai

la botola che portava al tetto. Frattanto le sirene avevano smesso di

ululare. La Polizei era arrivata. Chissà se sarei riuscito a non farmi

beccare? Di cadaveri ne avrebbero trovati abbastanza da trattenersi

per un po' a studiare la situazione e domandarsi cos'era accaduto.

Mi affacciai alla grondaia posteriore e vidi il nazi che filava a tutta

birra. S'era rimesso in tasca la "sputapiselli" e fingeva di essere un

passante qualsiasi. Lo so, fu un gesto pazzo, ma lo feci perché ne

sentivo il dovere, costasse quel che costasse. Quei bastardi non mi

avevano lasciato un momento di respiro, a partire da quel brutale

assassinio plurimo del battello esploso insieme a Ted. Adesso non

potevo permettere a quel superstite di cavarsela.

Bastò un colpo. Lo vidi incespicare e cadere faccia a terra. Un

breve sussulto, poi rimase immobile.

Sapevo che i poliziotti sarebbero entrati subito in agitazione

udendo quello sparo. Io però ero già balzato sul tetto della casa ac-

canto. Poi passai a un altro. Misi una dozzina di case tra me e quella

del massacro, prima di avventurarmi sulla terraferma. Ad un certo

punto scivolai in una botola, raggiunsi un solaio, una rampa di sca-

le, un marciapiede. Quella era una tecnica nella quale ero esper-

tissimo. L'avevo esperimentata un migliaio di volte in America e

all'estero. Mi servì pure a Berlino Est.

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Mi incamminai con l'aria più tranquilla del mondo, poi mi

girai a guardare prima di svoltare a sinistra. Si era raggruppata una

bella folla, laggiù. Raggiunsi un giardinetto pubblico poco distante

e sedetti su una panchina. Avevo del tempo per una volta tanto, e

l'avrei usato per cercar di decifrare ciò che Jungmann aveva cercato

di farmi intendere. Che diavolo significava quel secchio di sabbia?

La panchina era una piccola oasi di pace e di tranquillità. Mi

rilassai usando il sistema Yoga di acuire la mente attraverso il ripo-

so totale del corpo. Quel dannatissimo secchio rosso rappresentava

un mistero ben difficile da sciogliere. Jungmann aveva negato che

ci fossero di mezzo i russi, i cinesi e i nostalgici casalinghi. Eppure

Dreissig non poteva tirar fuori i quattrini dalla sabbia, a meno che

non si trattasse di sabbie aurifere. No, non aveva senso. E allora?

Qualcuno che commerciava in sabbia? Neanche questo aveva molto

senso, ma era pur sempre una possibilità. Che però avrebbe fatto

parte della mia teoria sugli industriali tedeschi. Invece Jungmann mi

aveva costretto a scartarla. Qualcosa mi disse che stavo camminan-

do per un sentiero sbagliato. Ricominciai un'altra volta.

Un secchio di ferro smaltato di rosso e pieno di sabbia. A che

mi dovevo aggrappare, come simbolo? Al secchio o alla sabbia?

Considerai a lungo il secchio da tutti i lati e non conclusi un acci-

dente. Allora bisognava tener duro con il suo contenuto, e cioè la

sabbia.

Maledizione, cosa aveva cercato di dirmi quel poveruomo?

Quei bastardi lo avevano proprio colpito alla gola, impedendogli di

parlare. E adesso non ci capivo nulla.

Ricominciai ancora. Chiusi gli occhi e mi abbandonai alle

possibili associazioni di idee, come si fa con i tests quando ti do-

mandano: "Cosa ti ricorda questo?". Ma che diavolo potevano avere

in comune Dreissig e la sabbia? Lo finanziava qualcuno che in

qualche modo si collegava con la sabbia. Qualcuno, o qualcosa, o

qualche località. Un lumino mi si accese nel cervello all'improvviso,

quando pensai a una località. Non si trattava di sabbia, ma di un po-

sto dove c'era la sabbia. Una spiaggia? No, maledizione, e quale

spiaggia?

Il lumino si mise a bruciare meglio e divenne una luce viva.

La sabbia del deserto? I paesi arabi!

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Ma certo, mi dissi balzando su. I paesi arabi ricchi di petrolio.

Questo aveva cercato di dirmi Jungmann! Sabbia e arabi, sicuro!

D'un tratto mi si schiarì la mente e tutto mi apparve logico.

Non tutto il mondo arabo era d'accordo con la politica di Nasser,

c'erano tanti sceicchi del petrolio che auspicavano un regime ben

diverso. Forse Dreissig aveva esposto il suo progetto di far risorgere

il nazismo a qualche signorotto arabo, e s'era comprato la sua colla-

borazione. E certo il tedesco aveva promesso qualcosa in cambio

del danaro che riceveva. Doveva trattarsi di qualcosa di grosso per il

Medio Oriente. E quel qualcosa non doveva essere la pace in quella

zona sempre sconvolta dalle ostilità. Proprio no. Ebbi l'impressione

sgradevole di una manovra assai poco pulita. Se Dreissig non veni-

va bloccato subito, nessuno lo avrebbe fermato più...

C'è sempre un'ora X in cui le cose precipitano troppo in fretta

e il solo sistema per arrestarle è una collisione.

Adesso non avevo bisogno delle istruzioni di Hawk, perché

sapevo già cosa mi avrebbe detto: infilarmi dentro in qualche modo

e scoprire i loro piani.

Bene, il primo passo consisteva nel rientrare a Berlino Ovest.

Il secondo ancora non l'avevo escogitato. Pensai un po' al progetto

di incontrarmi con Dreissig. Avrei potuto farmi passare per un am-

miratore, un ricco americano che condivideva le sue idee politiche.

Forse mi sarei conquistato la sua fiducia e gli avrei estorto delle

confidenze. Ne avrei discusso prima con Hawk, ma l'idea non mi

sembrava da buttar via.

Mi alzai e mi avviai a piedi verso il luogo dell'appuntamento

con Hugo Schmidt. Avevo imparato a mie spese che quello di

Dreissig non era più il giochetto innocuo di un fanatico dilettante

che non impressionava nessuno. La maniera con cui mi si erano

messi alle calcagna e mi avevano trovato ogni volta che avevo fatto

un passo dimostrava che quel tipo non andava sottovalutato. I suoi

bravi ragazzi erano dei tipi in gamba, i più astuti in cui mi fosse ca-

pitato di imbattermi in tanti anni. Oppure erano fortunati in modo

sfacciatissimo. O l'uno e l'altro, il che spaventava ancor di più. Vi-

sto il pelo sullo stomaco che avevano.

Comprai un giornale, poi mi appoggiai a un lampione e co-

minciai a leggere per passare il tempo in attesa del camion.

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Il traffico pomeridiano verso Berlino Ovest si infittì. Ad un

certo punto notai che per il ritorno Hugo Schmidt non era così teu-

tonicamente preciso come per l'andata. Arrivarono le quattro e

passarono, ma non lo vidi. Alle quattro e mezzo ripiegai il giornale

e cominciai a passeggiare avanti e indietro, sempre più ansioso. Non

sarebbe" stato piacevole rimaner bloccato di qua dal muro! Alle

cinque gettai via il giornale e il mio andirivieni divenne un po' fre-

netico. Guardavo con la massima attenzione tutti i veicoli che mi

passavano davanti. Alle sei mi parve che una mano gelida mi arti-

gliasse lo stomaco. Hugo non si era fatto vedere. E non si era fatto

vedere perché non aveva alcun motivo di venire all'appuntamento.

L'uomo non si aspettava che io arrivassi, infatti. Né alle quattro, né

dopo né mai. Perché io avrei dovuto esser morto in compagnia di

Klaus Jungmann.

Un pensiero che agghiacciava, ma più che giustificabile.

All'improvviso una grossa quantità di tessere del mosaico che prima

se ne stavano affastellate senz'ordine andarono a posto e spiegarono

un mucchio di cose che prima erano apparse senza senso. I gianniz-

zeri di Dreissig, per esempio.

Non erano né onnipotenti né diabolici. Qualcuno mi aveva

additato sin dall'inizio. E il ditino apparteneva alla bionda Helga

Ruten, la bella Helga, l'appassionata Helga. Solo lei sapeva che sa-

rei entrato a Berlino Est, da che parte, a che ora e in che modo.

Aveva preparato una bella trappola per me; solo che in trappola c'e-

ra caduto quel povero diavolo di Jungmann al posto mio. Anche il

giorno prima, quando mi avevano pedinato mentre mi recavo agli

uffici dell'AXE, Helga era la sola a sapere che ero arrivato in città.

Ovvio che aveva fatto una telefonatina dal castello, così loro si era-

no appostati da qualche parte ad attendermi. Ecco perché non ero

riuscito a scuotermeli di dosso! Maledetti. E maledetta Helga la ca-

gna. Oggi avevano atteso che mi ponessi in contatto con Jung-

mann, poi erano entrati in azione per prendere due piccioni con una

fava. Questo piccioncino però era più vivo e vispo che mai. Era pu-

re in collera. Rabbioso come un cane, per l'esattezza.

Adesso tutto quanto appariva così ovvio che mi sarei preso

volentieri a calci. Ripensai allo sbalordimento che aveva manifesta-

to Helga quando mi aveva veduto sulla sua soglia. Sfido, le avevano

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detto che ero morto carbonizzato sui binari dell'Espresso Berlino-

Amburgo!

E la cosiddetta telefonata al cugino Hugo Schmidt... In realtà

aveva convocato gli uomini di Dreissig per avvertirli che l'america-

no "morto" era lì in casa sua e intendeva recarsi a Berlino Est.

Aveva ordito la sua trama proprio in faccia a me, e io c'ero cascato.

Certo ci voleva una faccia tosta incredibile, ma la bionda l'avrebbe

pagata, oh se l'avrebbe pagata! Altro che amplessi...

Una cosa però continuava a disturbare la mia ricostruzione di

quanto era accaduto: come poteva entrarci Helga nella faccenda del

battello esploso, se per poco non ne era rimasta vittima pure lei?

Non calzava. Se faceva parte della banda, come mai si trovava su

quel battello? Quando l'avevo raccolta in acqua non fingeva, porca

miseria! Era sotto choc quando l'avevo tratta in salvo dopo quel bal-

zo nel Reno. Il tremito, le lacrime, la paura... che diamine, non è

facile simulare certe cose!

Mah, forse esisteva una spiegazione anche per quel particola-

re, e gliel'avrei estorta. Certo che il fattaccio del battello rappre-

sentava una stonatura. Ma adesso urgeva ripescare Helga e farla

cantare. Forse sarebbe stata proprio lei a condurmi sino a Dreissig,

se era ciò che sospettavo.

E come avrei fatto a rientrare a Berlino Ovest?

Mi incamminai e giunsi nei pressi del muro alto di cemento

grigio. Come se non fosse già abbastanza invalicabile, i russi lo

avevano pure decorato con dei bei festoni di elettrificati cavalli di

frisia. Sarebbe stato uno scherzo valicarlo... Si estendeva ininterrot-

to nelle due direzioni e formava proprio, come solevano dire i

berlinesi, una cortina di cemento.

Dissi a me stesso: "Mi pare che tu abbia un grosso problema

da affrontare, vecchio mio."





6


Berlino Est era al buio, ormai, e i fari delle macchine si accodavano

in prossimità della piazza. Questa era invece inondata di luce, con-

trariamente al resto della città.

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Girellai lungo il muro famoso e pur sapendo che non sarei riu-

scito a scalarlo mi adagiai per un po' nell'illusione di poterlo fare.

Sbirciando verso la sommità notai un paio di punti almeno dove

avrei avuto modo di sottrarmi all'insidia del filo spinato e della cor-

rente. Ma l'idea andò subito in fumo quando l'illuminazione della

piazza esplose accecante. Il muro divenne così visibile che chiunque

avesse tentato di scalarlo sarebbe stato cospicuo come un calabrone

su un gelato alla panna.

Camminando mi spinsi sino al punto in cui la Sprea, infi-

schiandosene dei lasciapassare, scivolava da Berlino Est a Berlino

Ovest. Una possibilità anche quella, ma deboluccia assai. Una squa-

dra di Vopo infatti pattugliava quella zona con l'aiuto di

efficientissimi cani pastori tedeschi. E anche le sponde del fiume

erano illuminatissime nei dintorni del muro. Uno che si fosse tuffato

e avesse tentato di attraversare la Sprea sarebbe stato visto e blocca-

to subito.

Tornai indietro e mi appostai di nuovo in quell'angolo della

piazza da cui ero partito. Osservai la coda di veicoli e ripensai a tut-

to ciò che sapevo sugli sforzi riuniti dei russi e dei poliziotti

tedesco-orientali per metter freno alla fiumana di fuggiaschi che

tentavano di rinunciare alle gioie della democrazia popolare. Con-

statai che avevano fatto proprio un ottimo lavoro quegli sbirri.

Tornare da Helga diventava sempre più problematico, e questa non

me l'ero aspettata.

Da quel che vidi capii che esisteva un'unica soluzione: per

uscire non c'era che una via: la porta per la quale si era entrati, e

cioè il posto di controllo con tutti i suoi bravi sorveglianti.

Stava lì di fronte a me, e con un po' di fortuna sarei forse riu-

scito a scivolar fuori. Ma prima dovevo procurarmi un automezzo

qualsiasi.

Non tardai ad accorgermi che le strade di Berlino Est si svuo-

tano alla svelta dopo il tramonto. La vita notturna è confinata nella

zona della Stalinallee, più ad oriente, e neanche là si vede una gran-

de animazione. C'era poca gente in giro, e poche macchine, salvo

quelle dirette al posto di controllo.

Infine ne scorsi una, una piccola Mini-Cooper parcheggiata

davanti a una trattoria. Era stata trasformata nel carro attrezzi d'un

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idraulico e aveva il tetto zeppo di borse, arnesi vari, torce ad aceti-

lene e pezzi di tubo. Sulla portiera si leggeva il nome del

proprietario, Klempner, e costui, come constatai dopo una sbirciata

all'interno del locale, stava finendo di bere il caffè. La stradetta era

semideserta e poco illuminata. Mi tenni nascosto nell'ombra e aspet-

tai che uscisse.

Gli balzai addosso senza far rumore non appena si accinse ad

infilare la chiave nella portiera. Dovevo far presto e soprattutto do-

vevo evitare il chiasso.

Tentò di girare su se stesso quando gli misi il braccio attorno

alla gola e gliela strinsi in una morsa. Strinsi quel tanto che bastava

a fargli perdere i sensi, ma non lo soffocai. Non appena infatti sentii

che mi si afflosciava di sotto lo lasciai andare. Quella stretta era

pericolosa e sarebbe stata fatale per il poveraccio se non avessi con-

trollato da esperto la pressione. Così invece era svenuto, ma tra un

quarto d'ora al massimo si sarebbe ripreso. Lo trascinai in un andro-

ne scuro e gli diedi uno schiaffetto amichevole.

— Mi dispiace, amico — sussurrai. — E' tutto per la buona

causa, vedi? Tu magari non lo sai ma stai entrando a far parte della

schiera degli eroi oscuri e misconosciuti.

La Mini-Cooper non si poteva definire il veicolo ideale per

un'impresa come quella che intendevo compiere. Non mi ci vedevo

a rompere uno sbarramento con quel trabiccolo. D'altra parte biso-

gnava accontentarsi. Girellai un po' per familiarizzarmi con la

macchina e mi parve di andare a spasso in triciclo. Infine tornai in

piazza e aspettai che si aprisse un varco nella coda per fare il mio

exploit. Mi occorreva un minimo di vantaggio perché non contavo

troppo sulla velocità di quella caffettiera.

Rallentai quando due grossi autocarri varcarono la porta per

entrare a Berlino Ovest, e la coda alle mie spalle dovette fare altret-

tanto. Così davanti a me ci fu uno spazio vuoto, ed io mi lanciai.

Premetti l'acceleratore a tavoletta e caricai come un toro il cancello

di legno a oriente della porta di Brandeburgo.

Purtroppo c'erano alcuni piccoli particolari che non avevo pre-

so in considerazione. Il primo non lo conoscevo e consisteva nel

fatto che, dopo tanti tentativi di fuga in passato, si era deciso di met-

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tere dei sorveglianti supplementari in piazza che tenessero d'occhio

le macchine che aumentavano di colpo la velocità.

Non appena tali sorveglianti davano l'allarme, schizzava fuori

il secondo particolare diabolico. E lo imparai a mie spese. In un fra-

stuono di sirene e di clacson tentai di procedere, ma di colpo vidi

una fila di chiodacci che sbucavano dal selciato. Rammentai solo al-

lora che alcuni tedeschi intraprendenti avevano cercato di passare

servendosi di carri armati per rompere lo sbarramento, e che in se-

guito i poliziotti avevano adottato il sistema dei chiodi per bloccare

in tempo i tentativi di fuga. Quei chiodi avrebbero sfasciato la Mini

di sicuro, se mi ci fossi infilzato con i pneumatici. Sterzai appena in

tempo e presi una curva pazzesca su due ruote, non appena mi resi

conto del pericolo. Il macinino sfiorò con grande stridore le sbarre

di lato e minacciò di rovesciarsi su un fianco. Lo raddrizzai per mi-

racolo e mi diressi a tutta birra contro quattro Vopo che si erano

inginocchiati per prendere la mira e mi stavano puntando addosso i

fucili. Come mi videro arrivare schizzarono via per mettersi in sal-

vo.

Adesso filavo di fianco al muro, ma purtroppo dalla parte sba-

gliata, e sentivo i proiettili che foravano i paraurti posteriori.

Cercavano di bucare le gomme. Sterzai di nuovo e feci del mio me-

glio per infilarmi in una laterale, ma per far ciò dovetti attraversare

lo spiazzo. Frattanto una camionetta mi si era piazzata davanti con

l'intento di bloccarmi.

Ne balzarono giù quattro Vopo – forse gli stessi che avevo di-

sperso poco prima – che si nascosero dietro, con i fucili puntati, e

aspettarono. Secondo loro avevo due alternative: o sbatter contro il

loro veicolo pesante, o avere il buon senso di fermarmi.

Non feci né l'una né l'altra cosa. C'era soltanto uno spiraglio

miserabile tra la parte posteriore della camionetta e il muro di una

casa. Mi ci infilai con la Mini, salendo sul marciapiede e scrostando

la vernice da ambo i lati, e schizzai via come un fulmine. Altra ster-

zata brusca, e infine trovai riparo in una stradina laterale, mentre

una macchina di pattuglia iniziava la caccia a sirene spiegate.

Ormai sapevo che con quella Mini-Cooper non sarei riuscito a

combinare gran che. Continuai per un po' a filare a zig-zag tra una

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viuzza e l'altra per far perdere le mie tracce, poi mi fermai, balzai

giù e cominciai a camminare.

La macchina della polizia arrivando come una freccia andò a

cozzare contro la Mini, come avevo sperato. Udii il cozzo e il boato

quando entrambe le auto andarono in fiamme. Adesso avrebbero

avuto il loro da fare e mi avrebbero lasciato un po' di respiro.

Raggiunsi l'edificio più vicino, poi tornai indietro e mi mesco-

lai alla folla di curiosi che si era raccolta ad osservare l'incidente e a

commentarlo. Arrivarono pure le jeeps militari. Mi allontanai tran-

quillo, proprio come un passante che ha soddisfatto la propria

curiosità.

Be', avevo tentato e mi era andata male. Mi trovavo ancora a

Berlino Est, e quel dannatissimo muro appariva più che mai invali-

cabile.

Ora capivo perché gli abitanti di quel settore di Berlino ave-

vano delle facce così poco allegre, rassegnate e prive di animazione.

Non appena la folla si disperse tornai verso la piazza e mi fic-

cai in un portone per tener d'occhio la fila di automezzi che si

dirigeva alla porta di Brandeburgo. Continuavo a spremermi il cer-

vello per trovare un'altra via d'uscita, ma senza successo. Non osavo

certo ripetere il tentativo di prima. Stavano all'erta, ormai, e aveva-

no chiamato pure dei rinforzi.

Rimasi nascosto in quel portone per qualche ora, a tormen-

tarmi le meningi e attendere l'occasione. Pensai a tutte le fughe

celebri, storiche e leggendarie. Stavo rievocando quella di Ulisse

che si sottraeva alla vendetta di Polifemo aggrappandosi al ventre di

una pecora, quando notai che il traffico con il trascorrere delle ore si

riduceva agli automezzi pesanti da trasporto; ormai non si vedevano

più molte macchine.

Era quasi mezzanotte e mi sentivo infelicissimo. Ed ecco che

vidi spuntare quattro enormi trattori con rimorchio diretti al posto di

controllo. Erano talmente ingombranti che l'ultimo arrivava quasi al

portone in cui mi trovavo io. Osservai i Vopo che controllavano i

documenti e le macchine come sempre, e che esaminavano l'interno

dei rimorchi. La solita storia, insomma. E il solito zelo maledetto da

parte degli sbirri. Mentre li guardavo un'idea mi si accese nel cer-

vello e prese subito fuoco. Sarà stato perché pensavo ad Ulisse,

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forse, non so. Ricordo che l'occhio mi cadde sulle due ruote piccole

ripiegate al di sotto della parte anteriore del rimorchio. Erano sorret-

te da un telaio retrattile che si trovava sotto l'asse, e venivano

liberate solo quando il rimorchio era staccato dal trattore.

I Vopo, terminato il controllo, tornarono ai loro posti e sentii

che il primo convoglio si metteva in moto. Ad uno ad uno anche gli

altri motori cominciarono a rombare, e quando il primo rimorchio

oltrepassò il cancello scivolai gattoni verso l'ultimo. Mi tuffai di

sotto e mi aggrappai al telaio, infilando le gambe tra l'asse e il piano

d'appoggio del trattore. Rimasi piatto piatto in quella posizione e

trattenni il respiro. Anche l'ultimo convoglio si avviò ed io mi rac-

comandai alla buonanima di Ulisse, figlio di Laerte, da Itaca.

Dal mio scomodo nascondiglio osservai i pantaloni delle uni-

formi che scomparivano man mano che acquistavamo velocità, poi

le strisce bianche e nere del cancello.

Infine tirai un sospirane di sollievo. Ero a Berlino Ovest!

Mantenni la mia precaria posizione sino a quando il convoglio si ar-

restò davanti a un semaforo rosso. Approfittai della breve sosta per

balzar giù velocemente, e feci appena in tempo ad evitare di venir

schiacciato da quelle ruote tremende. Sentivo un po' di crampi alle

gambe ma non ci feci caso e mi incamminai di buon passo. Ero da

questa parte, in barba a Helga e alla polizia. Inoltre ero vispo come

un fringuello e rabbioso come un cane.

Contrariamente all'altro settore, Berlino Ovest era ancora il-

luminata e piena di vita anche se era notte avanzata. Mi affrettai a

prendere un tassì e lungo il percorso controllai Wilhelmina per assi-

curarmi che avesse il caricatore pieno, poi me la misi nel fodero che

portavo sotto ascella. Avevo pure la chiave che Helga era stata così

gentile da darmi. Stavolta non sarei stato così compitino da suonare

il campanello, né così scemo.

Una lama di luce che filtrava di sotto la porta mi confermò

che la bionda era ancora alzata. Aprii svelto. Lei si trovava in came-

ra con l'uscio aperto e si volse quando mi sentì. Forse non aspettava

me. Anzi, non mi aspettava per niente visto che anche stavolta mi

credeva morto ammazzato. Si volse senza nervosismo, e mi doman-

dai quante chiavi di casa aveva distribuito ai suoi maschietti. Ma

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non ero curioso di sapere chi fosse il privilegiato di quella notte.

Non me ne fregava proprio niente.

Non ebbi bisogno di dire una parola. Spalancò gli occhi e mi

fissò incredula e terrorizzata. Indossava una gonna scura e una ca-

micetta verdolina senza maniche. Superato il primo momento di

stupore e notata l'espressione dei miei occhi, tentò di fare un tuffo

verso la cassettiera che stava contro la parete. Riuscì ad aprire il

primo cassetto e stava brancicandovi dentro in cerca della pistola

quando glielo richiusi sul polso, facendola strillare di dolore. Poi le

afferrai l'avambraccio e la scostai con uno strattone. L'arma ricadde

all'interno ed io ve la lasciai. Scaraventai Helga sul letto, e cadendo

lei rovesciò una valigetta da notte che stava preparando sul tappeti-

no. La vidi rimbalzare e l'afferrai per i capelli, tirando senza

misericordia. Lei gettò un grido e cercò di liberarsi divincolandosi

come un'ossessa e tentando di difendersi con i pugni. Adesso si era

messa ginocchioni. Cercò di commuovermi con la nota patetica.

— Ti prego, non farmi male — mi supplicò. — Sono felice

davvero che tu sia vivo!

— Oh certo, come no! Vedo che sei addirittura estatica di gio-

ia. L'ho capito quando ti ho visto balzare verso la pistola. E' stato

proprio un gesto toccante il tuo, niente da dire!

— Avevo paura che tu mi volessi uccidere — balbettò. — Eri

così... così...

La guardai dall'alto in basso sogghignando.

— E scommetto che non sei riuscita nemmeno a spiegarti per-

ché ero in collera, vero? Sei una povera innocente, lo so. Tuttavia

dovrai rispondere a qualche domandina, altrimenti passi un guaio

grosso.

Mollai una pedata al valigino.

— Stavi per andartene, vero? Appuntamento con i tuoi bravi

amichetti, zietti e cuginetti, immagino. Fiera del successo ottenuto,

eh? Magari volevi un bacio in fronte da Dreissig, e un "brava".

— Stavo andando in campagna — balbettò aggrappandomisi

ai baveri. — Non sono... non faccio... non sono dei loro, io, davve-

ro!

Fece gli occhioni tondi e supplichevoli di nuovo.

— Raccontala a un altro.

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— No, davvero, li ho aiutati stavolta perché mi servivano i

quattrini, ma...

— Lascia perdere. Non me la dai ad intendere. So che Dreis-

sig viene finanziato da quattrini arabi. Adesso tu mi illuminerai sui

particolari mancanti. Chi lo sovvenziona e lo appoggia, di preciso?

— Non ne so nulla — ripeté lei. — Non ne so nulla, devi cre-

dermi!

— Sicuro, debbo crederti, e poi debbo farmi esaminare il cer-

vello.

— Ma non capisci... — cominciò Helga. La interruppi con un

gesto brusco della mano.

— Hai ragione, c'è ancora un sacco di roba che non capisco,

ma adesso sarai tu a chiarire, e alla svelta. Per esempio non capisco

come possa una femmina avere il coraggio di fare all'amore con un

uomo, e poi preparargli una trappola mortale appena scesa dal letto.

Non capisco nemmeno come facevi a trovarti su quel battello che è

esploso.

— Posso spiegarti tutto.

— D'accordo, ma questo può aspettare. Prima devi dirmi ciò

che sai su Dreissig.

Mi accarezzò una coscia.

— Ti ho già detto che non so nulla sul suo conto e te lo ripeto.

Le mollai un ceffone con una forza da staccarle la testa dal

collo.

— Ricominciamo — latrai. — Dove prende i quattrini Dreis-

sig e dove li deposita?

Capì che non sarebbe riuscita a menare il can per l'aia. I miei

occhi le dissero che non stavo scherzando. Raccolse il messaggio.

Non mi sarei lasciato intenerire dalla sua femminilità né dalle sue

carezze alla Giuda Iscariota. A mia volta però notai una contrazione

nelle sue pupille, un rapido bagliore che mi mise in guardia. Osser-

vai la sua mano, che ancora cercava di accarezzarmi la coscia,

chiudersi di colpo a pugno e guizzare verso un punto più delicato.

Capii subito cosa intendeva fare, e prima che il colpo all'inguine

raggiungesse il bersaglio, le allungai un manrovescio che la fece vo-

lare giù dal letto. Le batterono i denti come nacchere. Ancora una

volta l'afferrai per i capelli e la tirai su. Poi la ributtai sulla coperta a

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faccia in giù, mi sfilai la cintola e cominciai a prenderla a frustate.

Lei urlò e cercò di sottrarsi ai colpi buttandosi giù dall'altra parte

del letto. La ripresi ancora e ancora le riempii la faccia di schiaffoni.

Non era più bella, adesso, con quelle guance rosse e gonfie, quei

lineamenti contorti dalla rabbia e dall'odio. Continuai a colpirla

senza misericordia, accecato dal rancore, e lei continuò a girare per

la stanza minuscola in cerca di respiro, mugolando e piangendo e

supplicandomi:

— No, mio Dio, no! Basta, basta, ti prego!

Incespicò, cadde, e di nuovo le afferrai i capelli e la sollevai

con uno strattone che per poco non la scotennò. La ributtai sul letto

e ricominciai con le cinghiate. Non mi stavo divertendo più di quan-

to non si divertisse lei. Non mi era mai piaciuto malmenare le

donne. Ma ad incoraggiarmi c'era il ricordo di tutta quella povera

gente sul battello, morta senza colpa.

Prima che svenisse per il dolore l'afferrai per il collo e comin-

ciai a stringere, fissandola spietato.

— E allora, Helga, questo Dreissig? Chi lo finanzia? Chi ap-

poggia il suo partito?

— Ben Mussaf — balbettò con voce strangolata, gli occhi

fuori dall'orbita.

Allentai la stretta e la lasciai ricadere sulla coperta.

Ben Mussaf, lo Sceicco Abdul Ben Mussaf. Uno dei ricconi

del deserto. Aveva sempre cercato di opporsi alla politica di Nasser

e alla sua influenza sugli affari arabi. Era miliardario, possedeva

una quantità di pozzi petroliferi e manteneva dei buoni contatti con

altri sceicchi in grado di alimentare la sua sete di potere. E di agevo-

larne la scalata.

— Come fa a mandargli i soldi, e dove glieli manda? — chiesi

a Helga. Lei esitò un attimo, ed io mi avvicinai minaccioso. Sussul-

tò e cercò di ritrarsi, terrorizzata.

— Oro.

Mi scappò un sibilo. D'altra parte era naturale. L'oro aveva

sempre una magnifica stabilità valutaria in qualsiasi parte del mon-

do. Dreissig poteva smerciarlo a suo piacere dappertutto e in

qualunque momento. In cambio di marchi, dollari, franchi o altra

valuta che gli servisse lì per lì. Si risparmiava pure la necessità di

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fare dei grossi depositi imbarazzanti in qualche banca. L'oro era va-

lido dappertutto, sempre, su ogni mercato.

C'era un problema, però. Una grossa quantità di quel prezioso

metallo non si poteva accumulare nel solito salvadanaio di terracot-

ta. Ingombrava.

— E dove lo tiene? — domandai a Helga.

Lei cercò di rizzarsi su un gomito, ma tremava di pena e di

rabbia. Scosse il capo come per snebbiarsi la vista, poi balbettò:

— Dammi una sigaretta, ti prego... — vide l'espressione geli-

da del mio sguardo e continuò: — Una sola, dopo ti dico tutto. Ho

bisogno di una sigaretta. Non la si nega nemmeno ai condannati a

morte, dopo tutto...

Assentii con un cenno del capo. Sapeva che non scherzavo e

che non sarebbe riuscita a farmi fesso. Una sigaretta forse le

avrebbe schiarito il cervello e l'avrebbe convinta a collaborare se

voleva salvarsi. Sul tavolino da notte c'era una lampada, un pesante

portacenere di cristallo e un pacchetto di Astor. Helga allungò una

mano per sfilarne una e per un attimo mi volse le spalle mentre af-

ferrava il portacenere. Indovinai le sue intenzioni solo perché le vidi

irrigidire il muscolo del braccio, e reagii fulmineo. Altrimenti mi

sarei fatto spaccare la testa da quel missile che doveva pesare alme-

no un chilo, quando lei lo agguantò e me lo tirò addosso. Mi mossi

con un guizzo, e il portacenere mi sfiorò soltanto una tempia, senza

far troppo danno. Mi slanciai per darle una lezione, ma lei era già

balzata giù dal letto e si era precipitata ad aprire il cassetto per

estrarre la pistola, approfittando di quell'attimo in cui ero rimasto

sconcertato a massaggiarmi la tempia e a scuotere il capo.

Quando mi volsi era davanti a me con l'arma puntata.

— Porco! — sibilò. — Adesso ti garantisco che te ne pentirai

amaramente. Ah, vuoi delle spiegazioni? Benissimo, te le darò, per-

ché saranno le ultime che sentirai. Se gli altri sono così inetti da non

riuscire a farti fuori, non sarò certo io a permetterti di cavartela. Ti

interessa sapere come facevo a trovarmi su quel battello? Ci sono

andata per metterci la bomba, grosso imbecille. Solo che quella

verdammte è esplosa trenta secondi prima del previsto. Sarei rima-

sta uccisa anch'io insieme agli altri, se non mi fossi buttata subito

dal parapetto per nuotare alla svelta verso la riva.

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Fissai quegli occhi di acciaio azzurrino. Erano di una freddez-

za spietata. E a dispetto delle botte che si era presa aveva una mano

saldissima nell'impugnare la pistola. Rimpiansi di non averle spez-

zato le dita. Ripensai per un attimo alla bestia primitiva che faceva

all'amore in modo così selvaggio ma senza partecipare con lo spirito

all'avventura. Era davvero una donna dalla doppia personalità. E

ciascuna di queste personalità era ancora più belluina dell'altra.

— Sei soddisfatto, adesso che ti ho svelato il mistero del bat-

tello sul Reno?

Assentii e continuai a fissarla.

— E adesso vuoi sapere dove nascondono l'oro, eh? — conti-

nuò. — Ben Mussaf domani sera arriverà per conferire con

Dreissig. Con lui arriverà pure una grossa partita d'oro. E' proprio

un peccato che tu non possa assistere alle operazioni di scarico della

merce.

Gridava, e io continuavo a fissarla. Non avevo nulla da perde-

re, ormai, e cercavo di guadagnare soltanto un po' di tempo, augu-

randomi che il tempo giocasse in mio favore. Non dovevo dimenti-

care che esisteva pure l'altra Helga, quella affamata di sesso. Se

fossi riuscito a incanalare i suoi pensieri su quel binario e ce li aves-

si tenuti anche solo per poco, forse mi sarei salvato. Frattanto avevo

visto che il cordone della lampada da notte finiva in una presa di

corrente non lontana dal punto in cui mi trovavo.

— C'è un'altra cosa che vorrei sapere — dissi, fingendo di ap-

poggiarmi sull'altra gamba per spostarmi un pochettino verso destra

e avvicinarmi di più con il piede allo zoccolo a cui era fissata la spi-

na. — Sei venuta a letto con me. Te la godevi davvero, oppure si

trattava di una finta?

La pistola non si mosse di un millimetro, ma per un istante i

suoi occhi si ammorbidirono.

— Non era una finta — ammise infine. — Ho scoperto subito

chi eri sin da quella prima sera al castello. Infatti ho ascoltato da

una derivazione il tuo raccontino al capo e ho immaginato che tu

facessi parte della schiera dei nemici. Ma mi piacevi. Sei un

bell'uomo e mi avevi eccitato, così volevo...

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— E ieri sera? — incalzai, spostando ancora un pochino il

piede a destra. — Non dirmi che hai già dimenticato tutto, non ti

crederei.

— Non è che io l'abbia dimenticato — ribatté. — E' solo fini-

to.

— Però ti piaceva, non è vero? — le domandai con un sorriso

insinuante. Ora il piede era a pochi centimetri dal filo e dalla presa.

— Non hai voglia di riprovare, Helga? Un'ultima seduta amorosa,

proprio con i fiocchi? Ricordi le altezze vertiginose a cui ti ho por-

tato, la scorsa notte? Ricordi quello che ti ho fatto?

I suoi seni si sollevarono, poi la vidi stringere i denti.

— Maledetto bastardo! — sibilò infine, togliendo la sicura

all'arma con un clic. Vidi il suo dito che si contraeva sul grilletto e

non persi tempo. Allungai il piede e diedi uno strattone al filo. La

luce si spense e io mi scostai fulmineo mentre una detonazione rim-

bombava per la stanza, a pochi centimetri dalla mia testa. Poi, con

altrettanta rapidità, tesi il braccio e afferrai Helga per un ginocchio.

Frattanto era esploso un secondo sparo e la pallottola si conficcò nel

soffitto. Helga cadde all'indietro e io le fui subito sopra e cercai di

impossessarmi della pistola. Lei riuscì ad ingannarmi quando la

mollò di colpo ed io perdetti l'equilibrio finendo a faccia in giù.

Bastò quell'attimo perché lei mi scivolasse di sotto e cercasse di

precipitarsi dal soggiorno verso la porta d'ingresso.

Le corsi dietro e vidi che saliva i gradini a due per volta. Cer-

cava riparo sul tetto.

Stavo per raggiungerla in cima alla rampa, ma lei riuscì a

sbattermi in faccia l'uscio del solaio e per poco non mi appiattì il

naso.

Per sua sfortuna non c'era la chiave nella serratura. Entrai

anch'io. C'era buio, lassù, ma la scorsi accanto a un piccolo lucerna-

rio perché il riflesso dell'illuminazione stradale stagliò la sua figura.

Capii che voleva balzare da quella finestrella al tetto della, ca-

sa accanto. Ma la casa accanto era assai più bassa della sua.

— Non fare la cretina! — gridai. — Se cerchi di scappare di lì

ti ammazzi!

Era troppo terrorizzata per darmi retta. Aprì la vetrata e si tuf-

fò.

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Il silenzio della notte venne lacerato da un urlo lungo e ango-

scioso.

Girai sui tacchi per andarmene. Avrei voluto compiangerla ma

non vi riuscii. Mi rincresceva soltanto che se ne fosse andata senza

fornirmi il resto delle informazioni di cui avevo bisogno e che non

avevo fatto in tempo ad estorcerle.

Di colpo mi sentii stanchissimo. Avevo passato due giorni e

due notti davvero estenuanti, a pensarci bene.

Filai giù dalle scale e uscii in fretta da quella casa, prima che

qualcuno desse l'allarme e arrivasse qualche poliziotto. Questi non

erano Vopo, ma sarebbero stati imbarazzanti lo stesso. E io non

avevo voglia di subire interrogatori di alcun genere.

Un alberghetto di seconda categoria fu ben lieto di darmi una

stanza, ed io fui ben lieto di entrarci e di buttarmi subito tra le coltri.

Mentre chiudevo gli occhi mi dissi che l'indomani avrei dovu-

to scoprire dove si sarebbero incontrati Abdul Ben Mussaf e il baldo

nazista della razza eletta. Bisognava che trovassi il modo di assiste-

re a quella riunione; ero certo che in caso di successo sarei stato

ripagato di tutte le arrabbiature di quei due giorni.





7


La mattina dopo, mentre prendevo una robusta tazza di Deutsche

Kaffee, cercai di riordinare quella matassa di pensieri ingarbugliati

che mi ronzavano in testa come calabroni impazziti. A dispetto dei

suoi dinieghi, era chiaro che Helga aveva fatto parte della combric-

cola capitanata da Dreissig; quel gruppo che sulle prime mi era

parso efficiente in modo diabolico. Ora però che avevo un quadro

più chiaro constatavo che nell'insieme erano risultati piuttosto

pasticcioni.

Mi dissi con un soddisfatto senso di trionfo che ormai sapeva-

no ciò che era accaduto alla loro biondona, e certo stavano innervo-

sendosi; forse cominciavano a rendersi conto che il loro avversario

non era poi tanto scemo. Nonostante ce l'avessero messa tutta per

eliminarmi e avessero cercato pure di lasciarmi nei pasticci a Berli-

no Est, il risultato non si poteva dire confortante: avevano perso sei

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uomini, più Helga. E io circolavo ancora. C'era di che diventare

inquieti davvero.

Un'altra cosa curiosa: per quanto mi fossi preoccupato di

sventare i piani di quel Dreissig, che ormai mi sembrava di conosce-

re bene, non l'avevo mai visto neanche in fotografia. Mi domandai

che tipo era. Il biondo ariano della razza eletta? Alto, basso, violen-

to, tranquillo? Padrone di sé nelle emergenze, oppure andava a

pezzi di fronte alle difficoltà?

Non si trattava di una curiosità oziosa da parte mia. Certe cose

hanno la loro importanza e possono dare un'idea di ciò che ci si

deve aspettare e di come si debba agire. In fondo sapevo una cosa

sola di lui: che cullava dei grossi progetti e delle grosse ambizioni.

E la vera portata di queste ambizioni non la conoscevo ancora del

tutto.

Continuai a riflettere anche su ciò che mi aveva detto Helga a

proposito di Ben Mussaf. Quella sera stessa sarebbe arrivato con

una grossa partita d'oro, e lei stava preparando la valigia per andar-

sene e assistere alla riunione. Solo una piccola valigia con il neces-

sario per la notte, il che significava forse che non intendeva fare un

lungo viaggio. O sì? Difficile indovinare, con quella donna. Aveva

usato la tecnica di basare le sue finzioni su fatti veri. S'era accordata

con il "cugino" Hugo perché mi accompagnasse a Berlino Est con

un camion, ed effettivamente a-vevo trovato il camion. Ma il "cugi-

no" era fasullo.

Mi aveva trascinato in un castello sul Reno che senza dubbio

conosceva dalle cantine alle soffitte, perché vi si aggirava con molta

disinvoltura. Ma ero pronto a scommettere che anche quello "zio"

nominato in modo così vago era fasullo. Non credevo di sbagliare

ritenendo che lo zietto fosse Dreissig. Per tenere delle riunioni se-

grete non c'era posto migliore di un vecchio castello isolato. Anche

per nascondervi dell'oro quel posto era l'ideale. Rammentai quelle

porte chiuse a sinistra, che Helga aveva evitato con tanta cura men-

tre mi faceva visitare il maniero. Ma certo, il luogo del convegno

non poteva essere che quell'antico Schloss sul Reno. Infatti aveva

fatto saltare il battello proprio lì nei pressi, la furba, così avrebbe

potuto tornare a casa ad asciugarsi, dopo l'immersione nel fiume.

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Cominciai a fare qualche rapido calcolo. Controllai il numero

delle miglia che separavano Berlino da quella località, tenendo con-

to anche della perdita di tempo inevitabile ai vari posti di controllo

sull' Autobahn. Ci sarebbero volute al minimo quattro ore. Avevo

bisogno di una buona macchina veloce, ma non me la sentivo di

rivolgermi ai noleggiatori d'auto. C'era il rischio che quelli fossero

tanto in gamba da tenerli d'occhio tutti, prevedendo che mi sarei

procurato un'altra macchina dopo la distruzione della Opel.

Chissà se Lisa Huffmann aveva già la Mercedes nuova... In tal

caso avrei potuto prenderla in prestito ancora una volta. Non potei

fare a meno di sogghignare mentre uscivo dalla Kaffeehaus. Mi sta-

vo già raffigurando la faccia che avrebbe fatto la ragazza.



Venne ad aprirmi lei. Indossava un golfino di lana rossa, mol-

to aderente, e un paio di pantaloni a quadretti bianchi e blu, assai

ben fatti ed eleganti. Feci uno sforzo tremendo per non fissare con

troppa insistenza quei seni rivolti all'insù. La guardai bene in faccia

per vincere la tentazione, e vidi che alzava un sopracciglio e abboz-

zava un sorriso mezzo divertito e mezzo curioso. Mi inchinai e la

salutai con la massima compitezza.

— Debbo osservare che saltate sempre fuori nei momenti più

impensati — disse.

— E' un vizio — confessai con un sorriso. — Come va la

macchina nuova? Ve l'hanno già consegnata?

— Qualcosa mi dice che dovrei rispondervi di no — ribatté

fissandomi perplessa. — Invece me l'hanno portata proprio ieri. E'

identica all'altra, ma color crema.

— Bene — commentai, e non riuscii a nascondere un certo

tono mortificato. — Vorrei che me la prestaste.

Adesso alla perplessità si aggiunse pure un'espressione incre-

dula.

— Scherzate, vero?

— Purtroppo non sono stato mai così serio in vita mia. — Nel

dirlo mi venne da ridere e dovetti ridere contro la mia volontà.

Quella faccenda era troppo assurda e ridicola anche per il mio vivo

senso dell'umorismo. Lisa Huffmann mi guardò, poi scoppiò in una

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risata pure lei. Il nostro fu un duetto molto affiatato e durò un pez-

zo.

— Questo è troppo, in verità — disse infine la ragazza tra i

singulti. — Avete portato il libretto degli assegni, perlomeno?

— Stavolta non ne avrò bisogno — risposi cercando di ricom-

porrai con uno sforzo. — Non ho alcuna intenzione di distruggerla.

— Niente binari?

— Niente binari.

— Nemmeno una banda che ci spara alle spalle? — mi do-

mandò quasi delusa.

— Nemmeno la banda.

— Neanche la banda dei vigili? Con i loro tromboni? Sapete

come siamo matti per quella roba qui in Germania.

— No, proprio niente.

— Che diamine, l'altro giorno avete fatto una gita piuttosto

costosa — osservò rifacendosi seria. — Non sarebbe più convenien-

te prendere una macchina a nolo?

Feci per dire qualcosa ma lei mi prevenne:

— Lo so, lo so, per adesso non potete spiegar nulla, quindi...

— Vedo che state imparando — dissi con un sorriso di appro-

vazione. Poi mi venne un'idea all'improvviso. In fondo la Mercedes

mi serviva soltanto per arrivare sin là. Dopo mi sarei arrangiato da

solo, come facevo sempre, e avrei affrontato le incognite che mi at-

tendevano, qualunque fossero, senza più coinvolgerla.

— Perché non venite con me? — le domandai. — Quando

avrò raggiunto la località che cerco me ne andrò per conto mio, e

voi ve ne tornerete a casa tranquilla e con la macchina tutta d'un

pezzo.

Ci pensò per un momento.

— L'idea non mi dispiace — disse. — Domani infatti la mac-

china ci occorre, perché zia Anna ha bisogno di fare un giro di

acquisti. Se vengo con voi, almeno sono sicura di rientrare in gior-

nata.

— Magnifico — convenni. — Inoltre potrete tener d'occhio la

Mercedes.

Scomparve all'interno, ma uscì subito con le chiavi in mano e

la borsetta.

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Andammo a prendere la Mercedes 250-SL in un garage

all'angolo, e partimmo subito.

Mi congratulai con me stesso per il lampo di genio che m'era

venuto. C'era qualcosa di rinfrescante in Lisa Huffmann. Aveva del-

lo spirito ed era molto sportiva. Il viaggio con lei sarebbe stato assai

più piacevole. Non facevo mai dei progetti a lungo raggio perché di

solito ignoravo ciò che mi attendeva. Perciò avevo sviluppato da un

pezzo la tendenza a godermi le occasioni buone ogni volta che mi

capitavano. Solo avrei fatto un viaggio lungo e noioso. Con lei sa-

rebbe stato diverso. Una bella compagna modifica tutto. E Lisa era

proprio bella.

Filammo sull' Autobahn e constatai che non era solo bella.

Conversava con spirito e intelligenza. Fisico desiderabile e intelletto

stimolante. Che volevo di più? I pantaloni non riuscivano a nascon-

dere la forma allungata delle sue cosce e il vitino sottile. I seni non

erano certo rigogliosi come quelli della fu Vichinga, ma avevano

qualcosa di provocante nella linea, com'era provocante quel mento

un po' ritto. Gli occhi da gazzella erano pronti al riso anche quando

le labbra non lo sembravano. Conclusi osservando che quel suo

aspetto composto e contenuto rifletteva un notevole equilibrio. Un

equilibrio che la spingeva a prendere la vita come veniva e ad ap-

prezzarne i lati sorprendenti.

— Dove avete imparato l'inglese? — le domandai ad un certo

punto.

— A scuola.

— Be', debbo dire che i vostri insegnanti erano fantastici —

commentai.

— Infatti. E non dimenticate che ho visto tutti quei films ame-

ricani.

Come vidi approssimarsi le sponde verdeggianti del Reno ne

fui dispiaciuto, a dispetto della missione che dovevo compiere senza

perder tempo. E di tempo ne avevo perso parecchio perché c'era sta-

ta una lunga e insolita serie di ritardi ad ogni posto di controllo, sia

ad est che ad ovest, e il traffico sull 'Autobahn era risultato pesante e

faticoso.

Era ormai pomeriggio inoltrato quando arrivammo sul lungo-

fiume. Di tanto in tanto durante il viaggio la ragazza aveva cercato

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di sondarmi un po', sia pure con discrezione, ma io non avevo

abboccato. Notai però che lei continuava ad osservarmi e a farsi

mille domande sul mio conto.

— Allora, avete deciso? — le domandai sorridendo. — Sono

un angelo vendicatore dalla spada fiammeggiante, o sono un super-

ladro di gioielli?

— Diciamo che ho raggiunto un compromesso — mi rispose.

— Penso che siate un po' dell'uno e un po' dell'altro, ma avviluppato

in una terza personalità. Che ne dite, signor Nick Carter?

Dovetti ridere perché ci aveva azzeccato e si era espressa mol-

to bene, usando persino qualche parola di slang. E in fin dei conti

non mi aveva dato un giudizio sfavorevole.

Scrutai con attenzione le alture e individuai i tetti e le torri di

diversi castelli che spuntavano tra il verde. Non volevo perdere la

strada proprio adesso o fare un percorso sbagliato. Volevo arrivare

dalla stessa parte, quella indicatami da Helga, tanto per evitare

complicazioni.

Finalmente lo vidi, e trovai pure la strada secondaria che si

inerpicava su per la collina. Rallentai e non tardai ad imboccare

anche il sentiero che portava al i castello. Ci entrai a marcia indietro

per permettere a Lisa di ripartire senza difficoltà. Non volevo che

procedesse oltre.

Stavo per dirle arrivederci quando tre uomini spuntarono di tra

gli arbusti e si avvicinarono alla macchina. Erano in maniche di

camicia e portavano pantaloni grigi e stivaloni di tipo militare. Sul

taschino della camicia bianca era ricamato uno scudo con due spade

incrociate. Non si trattava di un'uniforme vera e propria, ma non si

poteva dire nemmeno che fossero in borghese. La cosa si adattava

benissimo alla tecnica politica di Dreissig, sempre vaga e poco chia-

ra, che diceva e non diceva.

Uno dei tre ci rivolse la parola in tono cortese ma assai fermo.

— Questa è una strada privata.

Notai che erano tutti abbastanza giovani, che avevano gli

occhi gelidi e un fisico ben piantato.

— Oh, mi dispiace, non lo sapevo — mi scusai subito, allon-

tanandomi verso la strada principale. I miei occhi intanto avevano

scorto un altro paio di camicie bianche tra il fogliame. "Zio" Dreis-

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sig dunque era qui. Il vecchio e tranquillo Schloss si era trasformato

in un alveare piuttosto operoso. Chissà quanti giannizzeri s'era por-

tato dietro?

Continuai a scendere verso il lungofiume e imboccai una cur-

va. Adesso i guardiani non mi avrebbero più visto.

— Vi ringrazio tanto, bellezza — dissi scivolando giù dalla

Mercedes. — Io sono arrivato e mi fermo qui. E' stata davvero una

gita deliziosa e mi è piaciuta immensamente, ma è opportuno che

voi torniate a Berlino, se vi è cara la pelle. Abbiate cura di voi e del-

la macchina. Può darsi che ne abbia bisogno ancora, non si sa mai.

Lei si mise al volante e mi guardò negli occhi con aria preoc-

cupata.

— Si può sapere cosa intendete fare qui? — mi domandò sen-

za sorridere. Il fatto che fosse in pensiero per me mi lusingò, ma

neanche stavolta avevo il diritto di risponderle in maniera esaurien-

te.

— Mi dispiace, cara, ma non è venuto ancora il momento dei

quiz da sessantamila — le dissi con dolcezza. — Tornate a casa.

Forse ci rivedremo presto. E ancora mille grazie per il vostro spirito

sportivo e per la compagnia, davvero piacevolissima.

Per una volta tanto fu lei a stupirmi. Sporse il capo dal fine-

strino e mi baciò. Fu un bacio quasi tenero, dolce come il miele.

— Fate attenzione, mi raccomando... — Ora il viso era serio

serio. — Non so perché, ma mi sono affezionata a voi come una

stupida, mentre l'altra gente non mi piace per nulla. Quelli che spa-

rano, voglio dire. E mi sa che questi tipi che ci hanno mandato via

facciano parte di quella gloriosa famiglia di artificieri. Ancora igno-

ro il motivo per cui volete starvene qua solo. C'entra quel castello

lassù, vero?

Le sorrisi e le accarezzai una guancia.

— Va a casa, piccola. Mi farò vivo quanto prima.

Prima di tornare indietro me ne stetti lì fermo a guardarla

mentre si allontanava. Si era avviata adagio, con molta riluttanza.

Infine, non appena fui solo, rimontai cauto verso la stradina in sali-

ta. Ben presto gli arbusti si infoltirono e divennero un bosco vero e

proprio. Nei pressi del sentiero tagliai a sinistra e mi inerpicai su per

la collina, cercando di tenermi al riparo degli alberi per non farmi

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scorgere, ma cercando pure di star parallelo al sentiero per non per-

dere l'orientamento. Di tanto in tanto mi perveniva un suono di voci

e il rombare di qualche macchina sulla strada. Ricordavo che quel

viottolo conduceva proprio davanti al portone d'entrata, ma gli ar-

busti finivano prima; Un maledetto particolare che mi a-vrebbe

messo nei pasticci. Non potevo infatti apparire sulla radura alla luce

del giorno senza farmi scorgere da qualcuno. Lo spiazzo era troppo

ampio perché mi ci avventurassi, con quei cerberi in camicia bianca

che sorvegliavano ponte levatoio e ingresso principale.

Una sola cosa, che mi era sfuggita la prima volta, mi rallegrò

abbastanza: il fossato era tale solo di nome. Circondava il castello,

ma non aveva una goccia d'acqua. Ciò mi avrebbe forse facilitato

l'intrusione.

Senza uscire allo scoperto, feci un giro semicircolare tra gli

arbusti per raggiungere la parte posteriore del castello. Là dietro

non vidi nessuno né udii alcuna voce. Decisi di correre il rischio.

Uscii allo scoperto e scesi nel fossato asciutto. Notai un ponte di

fortuna fatto di assi che conduceva a un paio di pesanti porte di

quercia sul retro. Lo attraversai e raggiunsi una delle porte, tastan-

dola. Con mio grande stupore vidi che cedeva. Cigolava e cercava

di resistere, ma non era chiusa.

Scivolai all'interno, me la richiusi alle spalle e vidi che mi

ritrovavo un'altra volta in cantina. Mentre scivolavo tra le file di

botti, una avvisaglia nel cervello mi rammentò che quando ero

venuto lì con Helga la prima volta avevo percepito qualcosa di

stonato in quella cantina ma avevo messo in disparte quella sensa-

zione. Mi guardai bene intorno e riprovai ancora qualcosa di simile.

Ma qualunque fosse il particolare che mi disturbava, continuò a

ballonzolarmi in mente senza manifestarsi in maniera definita. Mi

faceva sempre di questi scherzi, la mia mente. Una cosa irritante,

anche se dopo finivo per scoprire di che si trattava. Prima o poi ci

sarei arrivato, ne ero certo.

Mentre salivo cauto la scaletta di pietra che portava all'enorme

salone d'ingresso, udii voci e rumori in direzione della cucina e del-

la sala da pranzo. Mi parve che fossero sedie smosse da qualcuno

che stava per sedersi a tavola, o apparecchiava.

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Mi tenni alla larga da quelle porte e salii la scala a spirale che

portava al primo piano. Dal pianerottolo che formava un'arcata sbir-

ciai il corridoio e vidi le tre porte famose, ancora chiuse. Avanzai

piano piano, sempre guardandomi intorno, e tastai ogni battente

sino a quando non giunsi al primo dei tre usci misteriosi.

Ero convinto che ci avrei trovato l'oro, in lingotti o in monete,

stipato in qualche sacco, o borsa, o cassa. Forse avrei trovato pure

delle armi e delle munizioni.

Anche qui spinsi il battente, che si aprì. Entrai pianissimo,

riaccostando la porta alle mie spalle, ma non vidi ombra di oro. Sol-

tanto delle gran piume. Piume attaccate ai relativi volatili. Una bella

fila di uccellacci in gabbie spaziose e per fortuna chiuse. Le penne

avevano un colore dorato e marrone con chiazze nere. I becchi era-

no paurosi quanto gli artigli, gli occhi maligni, la testa eretta e fiera,

tipica dell'aquila dorata, forse la più svelta e feroce nella famiglia

dei falconi. Ogni uccello stava nella propria gabbia, qualcuno in-

cappucciato e qualche altro no. E ognuno di loro era un autentico

assassino alato.

Scivolai fuori e passai alle altre due stanze. Anche là vidi solo

delle aquile e un equipaggiamento completo per la caccia con il fal-

cone. Osservai bene tutto e conclusi alla fine che Herr Dreissig

doveva essere un patito di quel vecchio sport per regnanti. Il che in

fondo si addiceva a un individuo che alimentava certe ambizioni di

grandezza. Ma era la mole dei volatili che impressionava, e il nume-

ro. Cosa se ne faceva, se non era un maniaco, di tre stanze piene di

aquile? E del tipo più aggressivo e feroce? Forse aveva escogitato

una variante sul tema della caccia d'una volta? Ricordai che qualcu-

no mi aveva detto che anche l'aquila dorata si poteva addestrare alla

caccia come il falcone. Era anche possibile che Dreissig avesse ap-

preso quello strano hobby dai suoi sceicchi arabi. Comunque quella

raccolta di uccellacci in un antico castello sul Reno aveva qualcosa

di sinistro. Forse perché ero prevenuto nei confronti del tedesco, ci

vedevo un significato minaccioso.

Nell'attraversare la stanza notai che una delle aquile mi stava

osservando con insolita curiosità. Le avevo viste in azione, quelle

care bestiole, e non ignoravo quel che potevano fare quando si av-

ventavano in libertà. Possedevano per così dire il fascino dell'orrido,

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perché erano bellissime e spaventose insieme. Erano capacissime di

fare un uomo a pezzi. Il gelo di quegli occhi insensibili mi diede un

brivido involontario di paura.

Chiusi piano anche l'ultima porta e tornai in corridoio. E ades-

so dove bisognava cercare? M'ero messo in mente che l'oro si

trovasse in quelle tre stanze chiuse, invece avevo preso una bella

cantonata.

Non ebbi il tempo di pensare a lungo perché mi pervenne un

suono di passi che salivano. Filai subito a nascondermi in una nic-

chia che ospitava una cospicua armatura antica e che per fortuna si

trovava in ombra e sbirciai.

Uno degli uomini in camicia bianca e stivali militari comparve

in compagnia di un arabo avviluppato nel "burnus". Il giannizzero

di Dreissig parlò in inglese al nuovo arrivato:

— Herr Dreissig prega il nobile rappresentante di Sua Eccel-

lenza di attenderlo qui — e gli indicò lo studio dello "Zio" di Helga.

— Tra breve sarà da voi. Vogliate scusarlo un attimo.

L'arabo si inchinò, e la guardia batté i tacchi e scomparve. Os-

servai l'uomo dal tunicone. Era un arabo dalla pelle chiara, alto,

dalla faccia grifagna. Non si vedeva gran che della sua faccia con

tutta la roba che aveva addosso. Se veniva in rappresentanza di Ab-

dul Ben Mussaf, era possibile che Dreissig non lo conoscesse.

Comunque qui urgeva rischiare, e rischiare di brutto. Per fortuna ero

molto abbronzato, e se mi fossi travestito da arabo forse sarei passa-

to, almeno tra i non arabi. Specie con quell'affare in testa e quella

specie di sudario addosso. Forse non avrei osato infilarmi in una

tenda di sceicchi, ma in un castello sul Reno avevo qualche possibi-

lità. Se quel tipo era venuto per prendere accordi con Dreissig, non

potevo lasciarmi sfuggire quell'occasione di conferire con il capoc-

cia e di trarlo in inganno. Poteva anche andarmi male, ma dovevo

tentare. E senza perder tempo.

Mi feci scivolare in mano lo stiletto. L'arabo stava sulla porta

dello studio e mi voltava le spalle. Dovevo eliminarlo alla svelta,

farlo, sparire e prendere il suo posto. Non potevo permettermi di

stordirlo soltanto, perché avrebbe potuto riprendersi sul più bello e

interrompere il mio colloquio con Dreissig, smascherandomi.

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Lo assalii in silenzio, senza che si accorgesse di nulla, e gli

piantai la lama nella carne. Barcollò, poi scivolò sul pavimento

come un mucchio di stracci.

Mi mossi come un fulmine, togliendogli "burnus", turbante e

tutto il resto, e infilandomi quella roba al posto suo. Sapevo già

dove avrei nascosto il cadavere, però ero ben lontano dall'imma-

ginare quanto sarebbe stato faticoso ficcare un corpo morto entro

un'armatura antica. Mi parve di metterci un anno. Alla fine sudavo

abbondantemente. Abbassai la celata con mano tremante e osservai

la mia opera. Mi parve tutto a posto.

Avevo ragione di sudare. Appena finito di ricacciare l'armatu-

ra con relativo contenuto nella nicchia, udii un suono di passi che

salivano e mi affrettai a tornare sulla porta dello studio di "zietto".

Poco dopo apparve un tipo alto, vestito di grigio. Occhi azzur-

ri e gelidi, inequivocabile razza ariana,, capelli ondulati e bion-

dissimi, struttura atletica. La faccia era un po' troppo imperiosa per

apparire simpatica, ma era tuttavia d'una bellezza da idolo dello

schermo o della canzone.

Mi tese la mano e la stretta che mi diede per poco non stritolò

la mia. Doveva essere pure un patito della cultura fisica, accidenti a

lui.

Mi rivolse un sorriso disarmante da buon fanciullone, forse un

po' troppo meccanico. Ma io ero un ipercritico. Sapevo benissimo

che su una pedana da oratore avrebbe avuto un successo enorme.

— Lieto di conoscervi, Ben Kemat — mi disse in perfetto in-

glese. Ed io ebbi la tentazione di tirare un grosso respiro di sollievo

vedendo confermata la speranza che i due non si conoscessero. —

Immagino che anche con voi vada bene la procedura che uso con

Sua Eccellenza.

Vide che lo fissavo con l'aria di non capire e mi spiegò subito:

— Alludo alla lingua inglese. Il tedesco di Sua Eccellenza non

è proprio perfetto, e la mia conoscenza dell'arabo è limitatissima.

Ma sappiamo tutti e due l'inglese, perciò...

— Oh, sì prego — risposi con un mezzo inchino. — Anche

per me l'inglese va benissimo.

Dreissig mi fece strada nell'ufficio. Notai che aveva appeso a

una parete una grande carta geografica di Israele e dei paesi arabi

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circostanti. Dreissig mi invitò con un cenno ad accomodarmi, ed io

sedetti proprio davanti alla carta. Il mio anfitrione continuò a sorri-

dere, ma vidi che mi squadrava dalla testa ai piedi con espressione

calcolatrice.

— Non sembrate arabo — disse.

— Mio padre era inglese, infatti. Ma mia madre mi ha allevato

in Arabia e mi ha imposto il suo nome. — La mia spiegazione fu

casuale quanto la sua osservazione.

— Dunque, abbiamo disposto ogni cosa nella maniera più

semplice, in attesa dell'arrivo di Sua Eccellenza — mi comunicò

subito. — Ho saputo che sarà qui verso mezzanotte, e che la spedi-

zione dell'oro è stata fatta alla solita maniera. Penso che anche l'oro

sarà qui prima dell'alba. I miei uomini lo scaricheranno e lo deposi-

teranno. Come immaginerete, solo uomini di assoluta fiducia

prendono parte alle nostre operazioni qui al castello. Domani ci

prenderemo qualche svago, faremo un po' di sport e di caccia. Ho

saputo che Sua Eccellenza porterà due dei suoi esemplari migliori di

aquile.

Assentii. Per il momento non potevo far altro.

— E dopo cena — continuò Dreissig — faremo i nostri piani

sull'inizio delle nostre mosse coordinate.

Mi sarebbe piaciuto sapere di più, ma non vedevo come avrei

potuto indurlo a parlare di quel piano. Decisi di lanciargli un'esca

per vedere se ci sarebbe cascato.

— Sono qui appunto per apprendere la maggior parte dei par-

ticolari che riguardano l'operazione — cominciai. — Ma domani

non sarò presente e non potrò partecipare alla vostra discussione.

Perciò Sua Eccellenza vi prega di illustrarmi il vostro piano a grandi

linee. Ha detto che solo voi, Herr Dreissig, siete in grado di fornirmi

quegli elementi che è così importante comprendere anche nelle mi-

nuzie.

In cuor mio mi congratulai con me stesso. Per essere uno che

brancolava nel buio me la cavavo abbastanza bene. Dreissig si gon-

fiò subito come un pallone e fece la ruota come un pavoncello

vanitoso.

— Lo farò con piacere, Ben Kemat — rispose puntando l'in-

dice verso la carta geografica di Israele e dintorni. — Lì c'è il

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nemico, vostro e mio, anche se per motivi ideologici diversi. Israele

è il nemico naturale dei popoli arabi, e lo è stato per secoli e secoli.

Gli ebrei vogliono comandare e ridurre in schiavitù gli arabi. Oggi

come oggi questa gente non ci dà più fastidio in Germania, però è

ben decisa a combatterci da fuori. Israele è il centro emozionale

degli ebrei, come sapete. E se gli si strappa il cuore, il nemico è

morto. Per questo dobbiamo cancellare Israele dalla faccia della

terra.

Fece una breve pausa e si versò un bicchier d'acqua da una

caraffa che teneva sullo scrittoio.

— Gli ebrei manovrano dall'esterno contro la riunificazione

delle due Germanie, e manovrano contro un fronte arabo unito. La

pace nel mondo verrà soltanto a patto che quella gente abbandoni

Israele e la smetta di complottare contro la Germania. Ma non lo

faranno certo spontaneamente. Sua Eccellenza l'ha capito benissi-

mo. Bisogna costringere gli ebrei a riconoscere i loro torti. I russi

non vi aiuteranno mai a combatterli in modo efficace, salvo con un

po' di materiale bellico. I soldati sovietici non valgono gran che,

fuori da casa loro. Non sono equipaggiati per combattere al caldo e

tra le sabbie del deserto. Non parliamo poi degli americani, che non

vi appoggerebbero mai a sconfiggere gli ebrei, in quanto li hanno

sempre protetti. Perciò il mondo arabo ha bisogno di un esercito

istruito ed equipaggiato dai tedeschi. La forza dei guerrieri arabi,

guidata dal genio militare germanico, distruggerà Israele una volta

per tutte. I miei consiglieri militari hanno già preparato tutti i neces-

sari piani bellici. Useremo, come ho già spiegato a Sua Eccellenza,

la tecnica già adottata da Rommel. In più ci saranno alcune innova-

zioni moderne, perché negli ultimi anni abbiamo fatto grandi

progressi in certi campi. Taglieremo Israele in tre parti, poi piombe-

remo dentro e ci passeggeremo in lungo e in largo. Sarà di nuovo il

vecchio s chwerpunkt und aufrollen usati simultaneamente in tre

punti scelti con cura. Vi assicuro che dopo nessuno parlerà più di

Lawrence d'Arabia. Quando avremo fatto piazza pulita per sempre,

passerà alla storia soltanto il nome di Heinrich d'Arabia. E il mondo

non lo dimenticherà mai, ve lo garantisco.

Per poco non scoppiai in una risata. In cuor mio dissi: "No

caro, con quel nome non passerai certo alla storia..." Ma lui era così

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gonfio di esaltata prosopopea che non si rendeva conto di essere

ridicolo. Eppure qualunque persona di buon senso ascoltandolo lo

avrebbe trovato troppo buffo e si sarebbe guardato bene dal pren-

derlo sul serio. Però... Mi venne in mente un altro tipo con un nome

tutt'altro che glorioso, un nome da commedia musicale: Adolf Schi-

ckelgruber. Era diventato Adolf Hitler e aveva fatto del suo meglio

per imporsi al mondo, non esattamente con le buone maniere. A ri-

pensarci non mi parve più tanto assurdo Heinrich d'Arabia. Tutto è

possibile, ormai...

Frattanto Dreissig si era ributtato nella sua fervida concione e

dovetti ascoltarlo di nuovo. Gli brillavano gli occhi e aveva una

voce tonante e ispirata. Stesso tipo di contorto evangelismo che non

molti anni prima aveva fatto esplodere il mondo in una guerra ese-

crabile e ingiusta. Adesso veniva esibito con maggiore furberia e

minore brutalità, ma era due volte più pericoloso. Mentre gli presta-

vo orecchio con l'aria di approvarlo, continuavo a sentire la eco di

antichi ritornelli che erano stati modificati solo un poco, ma conti-

nuavano a seguire la stessa musica. Vino nuovo in bottiglie vecchie,

insomma.

— Dovete capire — continuò il novello Profeta — che la no-

stra ostilità verso gli ebrei non c'entra con il razzismo d'un tempo.

Non è la loro razza che odiamo, ma la politica che hanno adottato.

E' la posizione di vantaggio che hanno raggiunto nei confronti dei

popoli arabi, grazie agli aiuti militari che ricevono di continuo.

Odiamo la violenza con la quale si oppongono alla riunificazione

della Germania, una violenza rafforzata dal loro potere economico e

dagli appoggi influenti di cui godono. Per questo ci muoveremo su

due fronti: quello politico qui in patria, da me diretto, e quello mili-

tare contro Israele. Quando tutto sarà finito, il mondo intero dovrà

inneggiare ai nomi di Heinrich Dreissig e di Abdul Ben Mussaf!

Sempre la stessa storia, mi ripetei. La vecchia storia dei ditta-

tori camuffati da salvatori del mondo. Il lupo in veste d'agnello, il

predone in veste di Messia...

Dalla finestra alle sue spalle vidi che era calato il crepuscolo.

Bisognava dare una scrollatina a quel brav'uomo e farlo tornare per

un momento sulla terra. Avevo ancora alcune domande importanti

da fargli.

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— Un punto di vista davvero glorioso, Herr Dreissig — os-

servai con un mezzo inchino. — Infatti Sua Eccellenza me lo aveva

già illustrato in parte. Certo che dette da voi le cose assumono un

significato diverso e un'efficacia maggiore. A proposito, l'oro arri-

verà con il solito sistema?

— Sì, verrà caricato su chiatte che arriveranno lungo il Reno,

e scaricato al mio imbarcadero privato.

— Molto bene — sorrisi.

Il colloquio era stato davvero ricco di informazioni, assai più

di quanto il mio amico neo-nazista non pensasse.

Stavo per fargli la domanda più difficile ed esitavo perché non

sapevo come rivolgergliela. Mi sarebbe piaciuto infatti sapere dove

avrebbe nascosto l'oro, ma... non potei dir nulla. Udii un clamore di

voci nel corridoio, poi tre guardiani entrarono trascinandosi dietro

una quarta persona. Una ragazza in camicetta rossa di cashmere e

pantaloni blu a quadretti bianchi.

Chiusi gli occhi e cercai di non mostrare quel che sentivo.

Maledizione. No, forse sognavo. Forse riaprendo gli occhi non l'a-

vrei più veduta. Ma non fu così. Stava proprio lì davanti a me.

— L'abbiamo pescata a curiosare qua intorno. Stava un po'

troppo vicina al portone e cercava di infilarsi dentro — disse una

delle guardie. Ero sicuro che Lisa non mi aveva riconosciuto così

camuffato. Del resto non mi aveva neanche rivolto uno sguardo.

Fissò invece Dreissig con espressione gelida.

— Ho perso la strada e i vostri energumeni mi hanno agguan-

tato come se fossi stata una delinquente — gli disse con voce

altrettanto gelida. Dreissig la guardò e si limitò a sorridere senza

commentare.

— Può darsi che lavori con l'agente americano — disse infine

ai suoi uomini. — Portatela giù nella stanza delle torture. La faremo

parlare anche troppo presto. — Poi si volse a me. — Questi vecchi

castelli per certe cose risultano ancora utilissimi. La camera medio-

evale delle torture in cantina è di un'efficacia enorme. Al giorno

d'oggi non sono stati ancora capaci di inventare niente di meglio, a

dispetto del progresso moderno. E' vero che l'automazione non ser-

ve a nulla. E' così soddisfacente occuparsi di certe cose di persona e

con raffinatezza...

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Percepii una nota così crudele nella sua voce che strinsi i denti

per impedire a me stesso di balzargli alla gola. Quell'uomo doveva

essere un maledetto sadico, e già pregustava lo spasso che si sareb-

be preso con la ragazza.

Una guardia afferrò Lisa per un braccio per condurla via, ma

lei si liberò con uno strattone e uscì sola e a testa alta. Fiera quanto

mai, e sdegnosa.

"Lisa Huffmann – dissi in cuor mio – se non ti fanno fuori, ci

penserò io a darti una dose così nutrita di sculaccioni, che per un

mese non sarai in grado di sederti!"





8


Dreissig mi invitò allo spuntino che intendeva fare prima dell'im-

portante cena di mezzanotte che aveva organizzato per l'arrivo di

Ben Mussaf. Accettai per non apparire scortese, ma il pensiero di

Lisa mi aveva tolto ogni appetito. Non riuscivo a togliermela dalla

testa, con un misto di emozioni che passavano dalla collera per la

sua dannatissima curiosità, alla paura per la sorte che le sarebbe

toccata. Dreissig, a dispetto della sua retorica pomposa e gonfia di

echi hitleriani faceva sul serio. Anche se ostentava delle ridicole

idee di grandeur da generale d'operetta non si aveva il coraggio di

ridere di lui. Dietro i luoghi comuni e la propaganda ben lustrata si

nascondeva l'animo di un pericoloso dittatore, su ciò non avevo

dubbi.

Mi venne la tentazione di tirar fuori la mia Luger Wilhelmina

e fargli saltare le cervella subito, lì sul posto, ma non osai. Non

sapevo ancora quanto avesse preso a prestito dal suo defunto mae-

stro, Adolf Hitler. Se i suoi seguaci erano imbevuti della stessa

filosofia da Götterdämmerung, la morte del capo poteva scatenare

un'orgia di delitti e di autodistruzione. E ci sarebbe andata di mezzo

pure Lisa. Senza contare me. Dopotutto non ero immortale, anche

se mi reputavo assai fortunato e sapevo cavarmela con astuzia.

Quelli erano tanti, maledizione.

No, meglio attendere. Dreissig era pericoloso, anche se il suo

nome simboleggiava solo un numero modesto, troppo modesto per

le sue ambizioni: trenta. Fosse stato il signor Trentamila, almeno...

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Be', intendevo tenere a bada la pericolosità di Herr Trenta, e nello

stesso tempo vedere sin dove si sarebbe spinto Ben Mussaf e sino a

che punto avrebbe seguito la follia delirante del suo camerata tede-

sco. Avevo l'impressione che all'arabo interessasse soltanto la

possibilità di dare un colpo al cerchio e uno alla botte, e cioè ribel-

larsi a Nasser ma nel contempo togliersi dai piedi quel fastidio di

Israele. A questo scopo aveva accettato gli attraenti piani militari di

Dreissig che gli prospettavano il raggiungimento del suo doppio

scopo. Forse in lui non vi era quell'antisemitismo feroce e contorto

di cui il tedesco era pervaso. In genere gli arabi sono dei materiali-

sti, e il loro positivismo cominciava ad avere una certa influenza

persino sul vecchio odio per Israele, in quel periodo. C'erano già dei

gruppi che ammettevano ed accettavano l'esistenza di quello Stato

con rassegnato realismo, se non con piacere. Erano i duri a morire

di ambo le parti che non volevano capirla, e cioè i ricconi come Ben

Mussaf e gli attivisti politici come Nasser. Entrambe le categorie

preferivano che la pentola continuasse a bollire. Però sarei stato

pronto a scommettere che se Ben Mussaf avesse assistito al naufra-

gio del suo nuovo amico, si sarebbe affrettato a raccogliere le sue

fìches e andare a giocare da un'altra parte. Il suo innato realismo

avrebbe avuto il sopravvento. Comunque valeva la pena di fare un

tentativo. Tanto più che non avevo scelta sino a quando non fossi

riuscito a mettere in libertà quella sconsiderata di Lisa Huffmann.

Lo "spuntino" risultò una cosa talmente lunga e interminabile

che a un certo punto domandai a Dreissig il permesso di alzarmi da

tavola (lui ne aveva ancora per un pezzo) per far due passi. Lo pre-

gai di lasciarmi vedere la camere delle torture, e lui diede ordine a

una delle sue guardie di mostrarmi la strada che conduceva alle can-

tine. Scesi per l'angusta scala di pietra che ormai conoscevo. La mia

guida mi fece oltrepassare i locali che contenevano le botti di vino e

mi accompagnò in un altro sotterraneo ancora più profondo, che

Helga si era guardata bene dai mostrarmi e al quale si accedeva per

una seconda scala nascosta dietro una porta. In una specie di vasta

anticamera vidi delle pile di casse lunghe di legno imputridito e ri-

conobbi con un brivido delle antiche bare. Il locale era illuminato da

torce a kerosene.

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— Dato che non usiamo molto questi locali — mi spiegò il

mio accompagnatore — Herr Dreissig non ha ritenuto opportuno

farvi installare l'elettricità. E del resto questo tipo di illuminazione

si addice di più all'atmosfera, non vi pare?

— Senz'altro — convenni.

Vidi appena entrato nell'altra stanza un uomo nudo e incatena-

to a una parete, e mi dissi che pure lui si addiceva molto

all'atmosfera.

— Ha tentato di derubare Herr Dreissig — mi disse la guar-

dia. — Il castigo finale glielo daranno domani, a quanto ho sentito.

Osservando l'uomo notai che non si erano limitati a dargli una

tiratina d'orecchi. Aveva il petto e le braccia solcati da strisce rosse

e sanguinolente, e si vedevano parecchi segni di bruciature sull'ad-

dome. Un piccolo svago che qualcuno si era preso prima di inflig-

gergli il "castigo finale".

Da lì passammo a quella che doveva essere la camera princi-

pale. Conteneva una spaventosa collezione di strumenti di tortura,

sia alle pareti che al centro. Oltre all'assortimento di fruste e catene

vidi la famosa ruota, un altro aggeggio che serviva a stirare e disar-

ticolare le membra, anelli di ferro infissi al muro per appendervi le

vittime, caldaie per arroventare gli attizzatoi, e un mucchio di altri

articoli affascinanti di cui potevo raffigurarmi l'uso.

Le tre guardie avevano portato Lisa in mezzo allo stanzone.

Alla luce tremula delle torce vidi che uno l'aveva afferrata per i pol-

si e glieli teneva imprigionati dietro la schiena mentre gli altri due la

svestivano. Ero arrivato in tempo per il tocco finale. Le stavano sfi-

lando le mutandine, infatti, nere con dei ricami rosa. Lei aveva gli

occhi pieni di lacrime, le guance rosse e umide. I suoi seni erano

proprio come li avevo immaginati: belli, piccoli, sodi e rivolti all'in-

sù. In un altro momento mi sarebbero apparsi invitanti, ma ora

avevo la testa un po' confusa. Il che non mi impedì di notare le

splendide gambe lunghe, la perfezione delle cosce e la delicatezza

delle caviglie, la snellezza della figura e il bel pancino piatto.

Sarebbe stata proprio desiderabile, se non avessi avuto altro per la

testa.

Mi tenni nell'ombra e osservai uno dei tre che allungava una

zampa e le afferrava un seno. Lisa riuscì a liberare un braccio con

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uno strattone e gli artigliò la faccia singhiozzando di rabbia. L'uomo

fece un balzo indietro, si accorse di sanguinare e le mollò un man-

rovescio. Lisa ricadde all'indietro, contro la ruota, e subito gli altri

due la agguantarono e la legarono con delle cinghie a quello stru-

mento di tortura. Fu una cosa di una brutale semplicità. La vittima

veniva inchiodata mediante delle cinghie di cuoio che le stringeva-

no le cosce, l'addome e i polsi. Ogni giro della ruota serrava ancor

di più i lacci, provocando un dolore atroce e fermando la circolazio-

ne. E di mano in mano che la morsa si faceva più crudele, il dolore

diventava insopportabile.

Il mio cicerone mi spiegò:

— A volte i reni ed altri organi restano spappolati dalla pres-

sione. Eppure c'è gente che nonostante questo resiste e continua a

vivere ancora per dei periodi incredibilmente lunghi.

— Fantastico — mormorai a denti stretti, fingendomi affasci-

nato dallo spettacolo.

Fecero girare la ruota al completo e vidi la cinghia conficcarsi

nell'addome di Lisa. Le sfuggì un lungo gemito di pena, e vidi i suoi

occhi spalancarsi per il terrore. Solo ora si rendeva conto di quel

che le stavano facendo.

— Chi ti ha mandato qui? — le domandò uno dei suoi tortura-

tori dando un altro giro di vite.

— Nessuno! — strillò Lisa. — Smettetela, oh, per carità,

smettetela!

Altro giro.

Il bel corpo di Lisa si inarcò tutto contro le cinghie. Stavolta il

suo grido fu così lacerante che echeggiò a lungo in quella specie di

caverna. Adesso le guardie se la stavano godendo e la osservavano

compiaciuti. Il più eccitato dei tre fece girare la ruota ancora una

volta e la fissò con la bava alla bocca. Non era dunque sadico sol-

tanto il capoccia. Si era scelto degli adepti degni di lui...

Adesso l'urlo di Lisa divenne una sorta di grugnito strangola-

to. Vidi il suo stomaco che si contraeva nel tentativo inutile di

liberarsi da quella morsa. Piangeva da strappare il cuore, ma la sua

pena atroce non riusciva certo ad intenerire quei quattro bruti che la

guardavano sghignazzando, compresa la mia guida.

91



Mi ero tenuto in disparte nella speranza che l'avrebbero pian-

tata, magari in attesa che arrivasse il capo a giocare un po'. Nel

frattempo avrei escogitato un sistema per tornare laggiù e cercare di

liberarla. Ma quando vidi che uno degli energumeni stava per dare

un altro giro alla ruota capii che non l'avrebbero smessa. Si diverti-

vano troppo.

Allora decisi di intervenire. A pochi centimetri dalla mia ma-

no c'era una pesante sbarra di ferro, destinata a chissà quale svago

gentile. L'afferrai fulmineo e la calai con forza sulla testa del mio

accompagnatore, che si afflosciò subito. Il trio non se ne accorse

nemmeno perché era troppo intento a sbavare su quel corpo splen-

dido che si contorceva. Mollai un colpo al più vicinö che mugolò.

Gli altri due si volsero stupiti ed io cacciai subito la sbarra nello

stomaco dell'uno, mentre l'altro si frugava in tasca per prendere la

pistola. Non ci riuscì. Lo colpii alla mascella con la punta della

sbarra, e lui si abbatté sul suo compagno. Al diavolo tutto quanto,

mi dissi. Tanto mi avrebbero smascherato lo stesso, all'arrivo di Ben

Mussaf.

Liberai Lisa dalle cinghie e la misi a sedere sul pavimento in

attesa che riprendesse un po' di respiro. Alzò gli occhi e mi rico-

nobbe.

— Oh... Nick!

Con un gesto di istintivo pudore afferrò il golf e se lo mise

davanti al seno.

— E' inutile far la pudibonda adesso — le dissi in tono ruvido.

— E del resto è troppo tardi. Vestitevi pure, e vedremo cosa

possiamo fare.

Mi strappai di dosso "burnus" e turbante che mi davano un

gran fastidio e mi impacciavano i movimenti, mentre lei si rimette-

va pantaloni e maglietta. Poi afferrai Lisa per un braccio e filai su

per la scala.

— Entriamo qui — dissi accompagnandola in una delle canti-

ne da vino.

Era un nascondiglio come un altro, per adesso. Si sarebbero

messi a darci la caccia anche troppo presto, non c'era da farsi illu-

sioni. Ci accoccolammo nell'angolo più buio, dietro una fila di botti

enormi.

92



— Oh, il mio povero stomaco — si lagnò Lisa massaggiando-

selo.

— Credo che non sarà mai più quello di prima. Debbono

avermelo sfondato.

— Vi rimetterete, e presto — la rassicurai, ma sempre in tono

risentito. — Avevano appena cominciato. Sono intervenuto perché

ho capito che non ce l'avreste fatta più. Vi dirò una cosa: se riesco a

farvi uscire viva da questo posto, vi rispedisco sino a Kaiserlautern

Strasse a pedatoni. Ma che razza di idea balorda vi è venuta? Eppu-

re vi avevo raccomandato di filare subito a casa se tenevate alla

pelle!

— Scusatemi — mormorò tutta compunta. — Non ho fatto

che peggiorare le cose per voi, vero? Ma io cercavo di aiutarvi. Sen-

tivo che qui c'era qualcosa di misterioso e che vi stavate cacciando

in qualche pasticcio. Volevo starvi vicina...

Si mise a singhiozzare; le misi un braccio attorno alle spalle e

bofonchiai:

— Bell'aiuto davvero!

— Potrete mai perdonarmi?

— E' meglio che lo faccia subito allora, perché non mi pare

che abbiamo molte vie d'uscita. Se non riesco a trovare un sistema

per farvi fuggire, mi toccherà lasciarvi qui sino a quando non mi sa-

rà possibile tornare a prendervi.

Strinsi i pugni, furente. Poi mi diedi una manata sulla coscia.

Che diamine, ero entrato dalla porta delle cantine, no? Perché non

tentare di uscirne? Forse ci avevano messo qualcuno di guardia, ma

si poteva sempre provare, prima che si diffondesse l'allarme.

Presi Lisa per mano e filai in punta di piedi verso le due porte

di quercia che conducevano al fossato sul retro del castello.

Di norma sono un tipo prudente e anche stavolta usai la solita

cautela. E meno male. Aprii soltanto uno spiraglietto. Mi bastò per

sincerarmi che anche la parte posteriore del vecchio Schloss era pat-

tugliata da un gruppo di fedelissimi in camicia bianca (ma

idealmente bruna) che non si trovavano certo lì per me né per Lisa.

Aspettavano qualcosa o qualcuno, ma intanto ci impedivano di usci-

re, accidenti a loro!

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Tornammo dietro le botti e ci accoccolammo di nuovo al no-

stro posto, mortificati. Lisa mi si accucciò vicino come un cagnette

impaurito.

Io le diedi una stretta che voleva essere rassicurante ma che

risultò piuttosto distratta. Stavo osservando la fila di botti e mi

domandavo cos'altro avrei potuto escogitare per uscire di lì.

Infine le annunciai:

— Questa è una cantina fasulla.

Lei mi guardò, poi si guardò in giro, sbirciando attenta nel

buio.

— Davvero?

— Sarei pronto a scommetterci — le risposi. — L'ho intuito

subito, la prima volta che son stato qui, che c'era qualcosa di storto.

Ma non son riuscito a capire di che si trattava sino a questo momen-

to. Vedete che le botti hanno tutte il tappo alla sommità?

Lisa assentì.

— Di solito invece nelle autentiche cantine da vino, quelle che

funzionano — continuai — una parte del liquido viene travasata in

altre botti pulite e trattate con lo zolfo. Lo si fa per tre volte. Dopo il

terzo travaso la botte viene adagiata su un fianco, così il tappo ri-

mane del tutto coperto dal vino. Ciò per impedire all'aria di filtrarvi

e di guastare il prodotto. Ora nessuna di queste botti è messa oriz-

zontalmente, con il tappo a lato. Era questo che mi puzzava, sin

dall'altra volta. Ma allora non sono stato a pensarci su molto, non

ero abbastanza interessato.

Mi alzai in piedi per ispezionare la botte dietro la quale m'ero

rifugiato. Tamburellai con le dita sul legno dei fianchi, poi tastai la

sommità, e infine il fondo. Mi pervenne il suono attutito del liquido

all'interno solo nella parte superiore, insieme al vago profumo del

vino. In ultimo mi inginocchiai ed esplorai bene con le dita la parte

inferiore. Trovai subito quel che cercavo: una lieve sporgenza che

seguii con i polpastrelli. Un quadrato era stato infisso a guisa di

tappo anche sul fondo. Esercitai una leggera pressione da tutti i lati,

e infine il tassello si mosse. Ci infilai la mano e constatai subito che

da quella parte il vino non usciva. Afferrai però un oggetto duro e

pesante, avviluppato in un po' di juta. Avevo scoperto dove si na-

scondeva l'oro. Ogni botte aveva un doppiofondo. Ed ecco svelato il

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mistero! Rammentai che Helga aveva mostrato una lievissima esita-

zione quando le avevo chiesto di mostrarmi le cantine. Ma si era

ripresa subito, sicura che non mi sarei accorto di nulla. Infatti avevo

avuto soltanto l'impressione di qualcosa di incongruo, ma poi non ci

avevo più pensato.

Rimisi a posto il tassello di legno, e subito udii passi e voci

concitate lungo le scale di pietra. Avevano trovato le guardie abbat-

tute e si erano accorti della sparizione di Lisa. E vedendo il muc-

chietto di indumenti dell'arabo avevano certo immaginato il resto.

Avevo sperato che tenessero per ultima la perquisizione delle

cantine, o che addirittura vi rinunciassero ritenendolo un nascondi-

glio troppo ovvio e quindi scartato. Ma non ebbi fortuna. Per colmo

di scalogna la prima che visitarono fu proprio quella in cui ci trova-

vamo. I raggi delle torce si misero a perforare l'oscurità, e si dires-

sero pure verso l'angolo in cui stavamo accuccia-ti.

Il primo round stava per concludersi. O lottare o cedere. E

poiché non mi è mai piaciuto cedere senza prima fare almeno un

tentativo disperato, sparai un paio di colpi alle torce, udii dei gemiti

e vidi le luci disegnare un arco verso l'alto, come impazzite.

Mormorai nell'orecchio di Lisa:

— Restate appiccicata a me il più possibile. — Dobbiamo ten-

tare un fugone dall'esito assai improbabile.

Arrivammo di corsa alla scala di pietra proprio mentre altri

due giannizzeri si precipitavano giù. Wilhelmina abbaiò di nuovo

un paio di volte. Due latrati secchi che lasciarono la coppia altret-

tanto secca. Adesso eravamo a pianterreno. Volai verso un angolo

in ombra e lo oltrepassai, sempre tenendo Lisa per mano. Un'altra

mezza dozzina di camicie bianche, più bianche del bianco, si misero

a ventaglio in vari punti. Non ci avevano ancora visto, e presi un'al-

tra decisione disperata. Mi slanciai verso l'ingresso anteriore.

Volevo far fuggire Lisa e metterla in grado di raggiungere la sua

macchina. Chissà che nella confusione generale...

Non ce la feci.

Un'autentica orda ci si avventò addosso da tutte le parti, quan-

do schizzammo fuori. Ne abbattei ancora un paio, poi feci

dietrofront e rientrai nell'atrio con la mia terrorizzata compagna.

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Le pareti dell'enorme anticamera erano tappezzate da antichi e

strani attrezzi da combattimento. Con un balzo riuscii ad afferrare e

strappar giù un aggeggio dall'aria micidiale che aveva il nome deli-

cato di "Stella del Mattino". Consisteva in una sfera metallica

chiodata, appesa ad una lunga catena. L'altra estremità della catena

era fissata a un bastone.

Quando l'orda sferrò l'attacco.. Lisa si appiattì contro la pare-

te. Io cominciai a roteare quel tremendo aggeggio con tutte le mie

forze. La palla chiodata disegnò un rapido cerchio nell'aria. Ebbi la

soddisfazione di vederne a terra almeno quattro; avanzai di un passo

e ne beccai altri tre, aprendo nelle loro carni delle brutte ferite san-

guinanti. Continuai a far volteggiare l'arma e ad avanzare piano.

Be', anche nel medioevo ci sapevano fare. Non potevo proprio la-

mentarmi dell'efficacia di quella graziosa "stella del mattino".

Poi due paia di mani mi afferrarono alle spalle. Altre mani mi

agguantarono le gambe. Barcollai e cercai di continuare il mio

movimento di rotazione con la sfera. Adesso erano in molti, ma si

tenevano ad una certa distanza. Lanciai la palla nella loro direzione

e mi volsi per affrontare i tre che mi avevano abbrancato. Uno riu-

scii a distanziarlo con un destro potente. Mi stavo lavorando quello

che mi imprigionava le gambe quando qualcosa di duro mi si abbat-

té sulla testa. Le mie gambe divennero di gomma, i lastroni di pietra

del pavimento si trasformarono addirittura in gommapiuma. Un

altro colpo alla tempia e mi sentii sprofondare in un pozzo senza

fine, come accade nei sogni tormentosi, quando non si finisce mai

di precipitare. E sentivo le costole che dolevano per i colpi e le

pedate di mille avversari, trentamila, un milione. Infine piombai in

uno stato di incoscienza.

Quando tornai in me notai che l'illuminazione era viva. Udii

un mormorio di voci intorno. Pareva che i miei polsi pesassero una

tonnellata. Quando riuscii a mettere a fuoco la vista infatti constatai

che me li avevano ammanettati con due spessi braccialetti di accia-

io.

Qualcuno mi costrinse ad alzarmi con uno strattone. A poco a

poco la nebbia si diradò e infine vidi Lisa accanto a me, pure lei

ammanettata.

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Poi scorsi Dreissig, sempre vestito in modo impeccabile, ac-

canto a un tipo più basso e scuretto, avviluppato in un burnus di

lusso. Ben Mussaf era arrivato, dunque, con un piccolo manipolo di

accompagnatori che gli stavano alle spalle in silenzio. Dreissig sta-

va spiegando all'ospite con voce vibrante di orgoglio come era

riuscito ad acciuffare me e Lisa. Notai un arabo al fianco di Ben

Mussaf che reggeva due grosse gabbie, ciascuna contenente un fal-

cone incappucciato.

Dreissig osservò gli uccelli e disse all'uomo:

— Domani la nostra gara sarà davvero appassionante. Il mate-

riale umano non manca, e ci divertiremo.

Ben Mussaf fece un cenno distratto di assenso. Non mi parve

molto interessato alla gara, mentre io, che avevo già indovinato con

un brivido quel che aspettava me e Lisa, cercavo di riordinare le

idee alla svelta per escogitare il sistema di sfuggire alla parte di

capro espiatorio che mi avevano destinato. L'arabo invece non mutò

espressione. Aveva due occhi freddi e penetranti che ricordavano

quelli delle aquile. Intuii che Ben Mussaf non era contento che un

paio di estranei fossero riusciti ad introdursi nel nascondiglio così

sicuro di Dreissig.

— Ed erano soltanto in due? — domandò a Herr Trenta con

un'occhiata a trapano.

— Sì, abbiamo esplorato ovunque, dentro e fuori — rispose

Dreissig con un'alzata di spalle. — L'americano da qualche giorno

s'era messo a darci noia, era diventato una vera spina nel fianco. E'

un famoso agente dell'AXE, un'organizzazione di criminali statuni-

tensi. Killer semi-legalizzati, protetti dal loro governo, che vanno in

giro a romper le scatole a mezzo mondo travestiti da divini giusti-

zieri.

Ben Mussaf grugnì e Dreissig ordinò alle guardie di portarci

giù. Mentre ci trascinavano via, udii che l'arabo diceva al suo anfi-

trione che i suoi uomini non avrebbero abbandonato le chiatte con il

carico d'oro sino a quando questo non fosse stato messo al sicuro

nei relativi depositi.

Lisa ed io tornammo nella camera delle torture. Ci incatena-

rono agli anelli della parete, poi se ne andarono. Volsi il capo per

guardare la mia compagna e tentai di fare lo spiritoso.

97



— Sapete una cosa? Mi sa che oggi zia Anna non andrà a far

compere.

Lei si morse un labbro. Gli occhi le si erano incupiti per la

paura.

— Cosa ci faranno?

— Non lo so — risposi, cercando di non pensare a quei dan-

nati uccellacci. — Ma sono certo che non hanno in mente di farci

divertire, queste brave persone. Avrete capito anche voi che non

sono proprio dei gentlemen. Vi conviene dormirci su.

— Dormire? — strillò, guardandomi come se fossi impazzito.

— State scherzando. Per quanto io non veda cosa ci sia da scherza-

re...

— Non è difficile dormire — risposi. — Guardate me, e

vedrete.

Chiusi gli occhi, appoggiai la guancia alla pietra viscida e

fredda della parete, e un momento dopo mi addormentai. La lunga

esperienza professionale mi aveva insegnato da un pezzo ad ap-

profittare delle occasioni al massimo. C'era un tempo da dedicare al

sonno e un tempo da dedicare alle preoccupazioni. Entrambi

avevano la loro importanza, però era sempre più opportuno scinder-

le.

Mi svegliai all'alba e dovetti sorridere. Lisa stava ancora dor-

mendo al mio fianco. Come avevo previsto, la stanchezza e le

emozioni avevano finito col prendere il sopravvento. Meno male; di

tempo per la paura ne avevamo anche troppo. La mattinata trascorse

senza che alcuno si facesse vivo. Era quasi mezzogiorno quando

Lisa si svegliò. Il terzo prigioniero, ancora nudo e incatenato, gia-

ceva sul pavimento. Ogni tanto si agitava un po', ma poi tornava

subito immobile e silenzioso.

Lisa mi diede il buon giorno con voce impastata, poi se ne

stette zitta anche lei. Nei suoi occhi si leggeva la paura. Ogni tanto

mi lanciava un'occhiata e cercava di ritrovare la sua compostezza e

la padronanza di sé, ma non si poteva dire che ci riuscisse molto

bene.

Mezzogiorno passò. Venne il pomeriggio, e continuammo a

rimanere soli. Incominciavo a sperare che qualcosa fosse andata di

traverso quando udii il passo di qualcuno che si avvicinava. Entrò

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un gruppetto di camicie bianche. Prima staccarono Lisa dagli anelli,

poi me. Infine sciolsero dalle catene anche l'altro che giaceva nudo

sul pavimento. Ci sospinsero su per le scale e ci fecero uscire all'a-

perto, sotto il sole del pomeriggio inoltrato.

Un'altra mezza dozzina di lanzichenecchi si unì alla compa-

gnia quando ci fecero salire su per la collina. Attraversammo un

bosco, e infine ci ritrovammo su un magnifico prato vellutato, leg-

germente in pendenza. Vidi subito un gruppo di persone raccolto

sulla sommità del pendio. C'era pure Dreissig vestito da cavalleriz-

zo e Ben Mussaf nel solito sudario di lusso. Con loro c'erano tre

arabi, ciascuno con un'aquila dorata sull'avambraccio. Cominciai a

sentirmi molto a disagio. Sapevo benissimo che non ci avevano

condotto lassù per farci ammirare una gara amichevole di volo tra le

aquile germaniche e quelle dello sceicco. Non tardai ad aver con-

ferma di quel che paventavo.

— Scusate se vi abbiamo fatto attendere — ci disse Dreissig

con un sorriso sadicamente untuoso. — Ma Sua Eccellenza ed io

abbiamo cambiato il programma e ci siamo accordati sui nostri pia-

ni oggi, anziché stasera.

— Immagino che avrete avuto il vostro bel daffare a contare i

lingotti — dissi con voce tranquilla. Dreissig mi rivolse il suo sorri-

so da fanciullone.

— No, quello è un lavoretto che faremo stasera, purtroppo. Le

chiatte son giunte con un certo ritardo, e poiché le operazioni di sca-

rico sono sempre lunghe, abbiamo deciso di rimandarle a stasera,

così eviteremo di venire osservati dal traffico fluviale. Per certe

cose è sempre preferibile la privacy, come dite voi americani.

— Temo però che voi non sarete qui ad assistere allo scarico

delle chiatte — mi disse Ben Mussaf tendendo il braccio, mentre

uno dei suoi uomini trasferiva il volatile sulla sua manica. — Questi

splendidi cacciatori hanno avuto un successo incredibile durante un

esperimento molto interessante. Vedete, li abbiamo addestrati ad

uno sport tutto speciale: la caccia all'uomo anziché agli uccelli.

Quando ho suscitato nel signor Dreissig la stessa passione che ho io

per questi rapaci, è stato appunto lui a suggerirmi l'idea di usarli

come bombardieri in picchiata. Un'ottima variante davvero. L'aquila

dorata infatti è abilissima nel rincorrere e sbranare a colpi di becco e

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di artigli chiunque stia fuggendo. Un'innovazione fantastica per i

prigionieri che scappano. Questi uccelli sono dei cacciatori nati, e

degli autentici killers. A volte aggrediscono da soli qualunque cosa

che si muova soltanto. Non si tratta quindi di sviluppare un istinto,

quanto di specializzarlo.

— Dato che siamo degli sportivi — intervenne Dreissig — vi

daremo l'opportunità di cavarvela, se siete abbastanza svelti. —

Puntò il dito verso un boschetto in fondo al prato, a 500 metri circa.

— Se arriverete vivi a quegli alberi vi verrà concessa la libertà.

Abbozzai una smorfia. Avendo veduto falconi ed aquile all'o-

pera, sapevo benissimo che razza di opportunità ci venivano offerte.

Ben Mussaf alzò il braccio e l'aquila incappucciata si agitò in

attesa dell'inizio del divertimento. L'uomo, ancora nudo come un

verme, venne sospinto in avanti. Vidi gli occhi di Lisa riempirsi di

pietà e di orrore.

— Corri, porco! — gridò Dreissig dandogli un urtone nella

schiena. L'uomo si volse, guardò l'uccellaccio con espressione terro-

rizzata, poi cominciò a correre con quanta forza aveva nelle gambe.

— Togli il cappuccio — ordinò Ben Mussaf al suo aiutante,

che si affrettò ad eseguire.

Ben Mussaf sollevò un poco il braccio, e subito l'aquila si

librò verso il cielo.

Sarebbe stato uno spettacolo interessante, se non avesse ri-

guardato così da vicino le nostre vite.

Seguii mio malgrado con lo sguardo il volo, vidi che l'uccello

disegnava un semicerchio nell'aria, poi cominciava a calar giù in

picchiata. Quel pover'uomo era a metà strada e continuava a correre

a perdifiato. Lisa mi strinse un braccio e mormorò:

— Forse ce la fa!

La vidi così eccitata e piena di speranza che non ebbi il cuore

di deluderla. Tanto avrebbe visto da sé, purtroppo. Era solo questio-

ne di secondi.

Continuai a fissare l'uccello, come ipnotizzato. Ora piombava

giù con la rapidità di un proiettile. Man mano che le grandi ali dora-

te si avvicinavano all'uomo in corsa, si allargavano orizzontali, e le

zampacce si protendevano in avanti con tutti gli artigli in mostra.

Vidi quei dannatissimi artigli conficcarsi nella nuca dell'uomo, vidi

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il fiotto di sangue che ne zampillò. Il suo grido di terrore giunse

sino a noi. Il disgraziato si portò le mani al capo, inciampò, stra-

mazzò. Riuscì però ad alzarsi e tentò ancora di correre, sospinto

dalla paura e dall'istinto di conservazione. Ma l'aquila tornò alla

carica, spietata. Gli conficcò gli artigli nel braccio poi si risollevò e

lo trascinò a mezz'aria per un tratto. Lo lasciò ricadere e si tuffò di

nuovo, lacerandogli la faccia e il collo con gli unghioni e col becco.

Le urla disperate dell'uomo giunsero fino a noi. Lo vidi cadere

un'altra volta. L'aquila tese le ali, fece un gran giro attorno, poi calò

su di lui e ricominciò a lavorare con il becco, strappandogli la carne

dall'addome a brandelli. Lo spettacolo era orripilante, dava la nau-

sea. L'aquila, ormai frenetica nella sua sete di sangue, continuò

l'opera di distruzione, spietata. L'uomo era morto, ormai, era ridotto

ad una massa inerte di carne maciullata, ma l'uccellaccio procedeva

nel suo inutile massacro. Non so per quanto tempo sarebbe andato

avanti. Distolsi gli occhi perché ne avevo abbastanza e ormai sape-

vo tutto sulle "opportunità" che ci avrebbero dato di salvarci.

Infine Ben Mussaf soffiò in un fischietto acutissimo. L'aquila

si fermò, guardò dalla nostra parte, poi si risollevò in volo e tornò

indietro. Si appollaiò di nuovo sull'avambraccio dell'arabo, spor-

candoglielo tutto di sangue.

Guardai Lisa. Si era coperta il volto con le mani. L'assistente

si affrettò a rimettere il cappuccio all'uccello e a portarlo via.

— Splendida esibizione — disse Dreissig in tono entusiasta.

— Adesso tocca alla ragazza. Levatele i vestiti.

Lisa non disse nulla. Ammirai la sua forza d'animo. Non vole-

va dar soddisfazione al tedesco, non intendeva mostrarsi terrorizza-

ta. Ma lo era quanto me. Sapevo che non aveva maggiori possibilità

di quel pover'uomo. Il suo splendido corpo tra breve sarebbe stato

preda sanguinante di un'altra aquila feroce. La sola cosa da farsi

sarebbe stato accoppare quelle bestiacce, ma come?

Mentre quel pensiero mi attraversava il cervello come un ful-

mine, mi dissi che forse un filo di speranza esisteva. Non avrei

potuto far fuori le aquile, però... si poteva far sì che si distruggesse-

ro tra loro. Infatti le tenevano incappucciate sino all'ultimo momen-

to ad evitare che si avventassero una contro l'altra.

101



Lisa era nuda, adesso. Dreissig, Ben Mussaf e gli altri la guar-

darono e ammirarono la sua bellezza.

— E' un peccato, però — disse l'arabo con un guizzo di con-

cupiscenza negli occhi.

— Sì, ma è giusto che sia lei a pagare per la morte della nostra

Helga — gli spiegò Dreissig. — Occhio per occhio, dente per dente,

Eccellenza.

Nessuno mi stava osservando, ed io indietreggiai piano piano

verso gli uomini che tenevano le altre due aquile. Guardai Dreissig

e vidi che afferrava Lisa e le dava un urtone.

— Corri! — gridò. — Corri, piccola cagna!

Lisa filò via come una saetta. La sua splendida figura che vo-

lava nuda su quello sfondo smeraldino del prato evocava cose ben

diverse dalla cruda realtà che avevano preparato per lei.

L'arabo tese il braccio, ma io scattai, approfittando del fatto

che tutti gli occhi erano fissi su Lisa. Con una sola mossa rapidissi-

ma strappai il cappuccio da tutte e due le aquile, e lanciai un grido.

I due rapaci si librarono verso il cielo simultaneamente, dise-

gnarono il solito semicerchio, ampio, poi si scagliarono uno contro

l'altro. Vi fu una vera e propria collisione a mezz'aria, accompagna-

ta da una pioggia di piume e di sangue. Poi si staccarono per un

attimo e tornarono all'attacco con più violenza di prima, beccandosi

e artigliandosi a vicenda. Furiosi, si sollevarono e caddero, si risol-

levarono e ricaddero, fecero una breve sosta poi ricominciarono a

strapparsi piume e carne. Anche se stavolta non si trattava dell'ag-

gressione ad un uomo, la scena era selvaggia lo stesso e rivoltava.

Fu una cosa molto rapida, però. Ad un certo punto si vide una

specie di brivido violento ad una certa altezza, poi tutti e due gli uc-

celli piombarono giù. Il vincitore non era molto più vivo del vinto.

Dreissig e Ben Mussaf erano rimasti affascinati dallo spetta-

colo quanto me, ma adesso si volsero a guardarmi indignati, furenti.

Guardai verso il boschetto. Lisa era già scomparsa tra gli alberi.

— Rincorretela — ordinò Dreissig ai suoi uomini. — Riporta-

tela qui.

— E voi pretendereste di essere uno sportivo e un uomo d'o-

nore? — protestai guardandolo con disprezzo. — Le avete

promesso la libertà se avesse raggiunto quegli alberi, e lei li ha rag-

102



giunti. Se la vostra parola vale così poco, Sua Eccellenza farà bene

a non fidarsi troppo di voi. "I trattati sono solo dei pezzi di carta",

vero?

L'allusione al suo Führer lo fece impallidire di rabbia, e mi

mollò una sventola che per poco non mi girò la testa dall'altra parte.

Era forte, quel figlio d'un cane, ma se si aspettava che io subissi

passivo si illudeva. Gli allungai un pugno in pieno stomaco e lui

dovette piegarsi in due e stringersi l'addome tra le mani. Bene, ave-

vo guadagnato ancora un po' di tempo, e gli uomini non si erano

mossi per rincorrere Lisa. Quattro però si avventarono su di me e mi

immobilizzarono prima che mi venisse voglia di menar le mani

un'altra volta.

— Portatelo via — disse Ben Mussaf alle guardie, e aiutò

Dreissig a rialzarsi.

Li seguii senza far storie. Mi riportarono nel sotterraneo e mi

incatenarono di nuovo alla parete.

Un'ora dopo calò l'oscurità. Ero ancora solo. Man mano che il

tempo passava divenni un po' più ottimista. Non avevano trovato

Lisa. Forse aveva fatto in tempo a scappare. Non volevo cullarmi

troppo nell'illusione, ma col passar delle ore cominciai a tranquilliz-

zarmi. Adesso non mi restava che escogitare un sistema qualsiasi

per tagliar la corda e dare il colpo di grazia a Dreissig una volta per

tutte.

Già, ma come?





9


Ero rimasto per ore con l'orecchio teso, sperando di udire gli uomini

di Dreissig che trasferivano l'oro nelle cantine. Sapevo che avrebbe-

ro usato l'ingresso posteriore, ma le cantine non erano tanto lontane

dalla camera delle torture. Avrei udito certo qualcosa, non foss'altro

che un tramestio indicatore. Ma non sentii proprio nulla. Chiaro che

non avevano ancora incominciato. Oppure dal punto in cui mi tro-

vavo non si udiva niente. C'era un silenzio di morte in quella stanza

cavernosa.

Per questo allungai il collo, allarmato, quando mi giunse un

suono lieve di passi che si avvicinavano alla mia prigione. La torcia

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ad acetilene ormai dava soltanto una luce debolissima perché stava

estinguendosi. Ma bastò a mettere in evidenza qualcosa di rosso.

Emisi un grugnito esasperato.

— Oh, no! Ancora voi? Ma che diavolo siete venuta a fare

qui?

— Da sola non riuscivo a cavarmela — mi rispose Lisa. —

Una pattuglia vera e propria sta circondando la proprietà attorno ai

terreni del castello. L'idea era quella di bloccarmi la fuga, così ho

pensato bene di rientrare. Forse loro non se lo aspettano. Ho biso-

gno del vostro aiuto, ed eccomi qui. Dopo tutto siete stato voi a

ficcarmi in questo pasticcio; è giusto che mi tiriate fuori.

Protestai con vigore:

— Sapete che avete una bella faccia tosta? Mi siete corsa die-

tro per spiarmi dopo che vi avevo messo in guardia e pregato di

tornare a Berlino alla svelta. Dunque è colpa vostra se vi siete fatta

beccare. Avrei dovuto infischiarmene di voi, invece di intervenire

per salvarvi dalla tortura. Se avessi potuto fare a modo mio, le cose

sarebbero andate in maniera assai diversa!

Lei sorrise.

— Un particolare tecnico di importanza minore. — Cominciò

a liberarmi i polsi dalle catene, con ammirevole perizia. — Chi ha

rapito me e la Mercedes la prima volta? Chi mi ha invitato a venir

qui? — L'aria impaurita e rassegnata non c'era più, adesso. La ra-

gazza aveva ripreso la padronanza di sé. Sospirai.

— E va bene, ma io...

— Avevo paura, ma mi sentivo anche colpevole nei vostri

confronti — ammise infine. — E quando si è nudi ci si trova in

posizione di inferiorità.

— E dove avete recuperato i vostri abiti? — le domandai,

ancora sbalordito.

— Sull'erba, dove li avevano lasciati quei bravi signori dopo il

mio forzato spogliarello. Nella confusione generale se ne sono scor-

dati, credo. Quando ho capito che non sarei riuscita a forzare il

blocco, mi sono nascosta nel bosco. Per poco non morivo di freddo.

Ad un certo punto sono tornata su e ho trovato la mia roba. Ho infi-

lato solo il gonfino e i pantaloni.

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Non c'era bisogno di spiegarmelo. Avevo già notato che la

maglia di lana morbida aderiva in modo rivelatore ai suoi seni, met-

tendoli bene in evidenza. In fondo quei seni avevano contribuito a

spronarmi al salvataggio della bella prigioniera in un sinistro castel-

lo medioevale. M'ero comportato come un autentico cavaliere

antico. Ed ora desideravo più che mai uscire dallo Schloss con lei,

vivo e in buone condizioni.

Mi stiracchiai per favorire la circolazione, e lei mi spiegò:

— Sono passata nei pressi dell'imbarcadero e ho visto che non

hanno ancora cominciato a scaricare l'oro. Gli uomini di Ben Mus-

saf sono di guardia sulle chiatte.

— Quanti? — le domandai. — O il particolare vi è parso

troppo insignificante?

Mi rimbeccò subito:

— Ne ho contato sei. Le chiatte sono due, con tre sentinelle

per ciascuna.

— Brava ragazza. Se continuate a comportarvi con tanta dili-

genza, prima o poi faremo di voi una spia migliore di Mata Hari.

— Vi rendete conto che non so ancora niente di questa male-

detta faccenda? — disse seguendomi su per le scale. — Mi sono

fatta un'idea grazie al poco che ho raccolto qua e là, ma voi non mi

avete spiegato proprio nulla. Vi sembra giusto, dopo le avventure...

diciamo insolite, che abbiamo avuto?

— Bambina mia, vi prometto che vi farò un bel quadro della

situazione se e quando riusciremo a filar via da questo posto incan-

tevole. E se non ne usciremo vivi, la vostra curiosità non avrà più

bisogno di essere soddisfatta.

Quella pensata sulle due aquile che mi aveva permesso di sal-

var la pelle o di procrastinare l'esecuzione della condanna, mi aveva

pure indotto ad affezionarmi all'idea di combattere Dreissig con le

sue stesse armi. Se tutto andava bene, i suoi trucchetti gli si sarebbe-

ro rivoltati contro ed io ne avrei tratto delle soddisfazioni egregie.

Dunque le chiatte cariche d'oro stavano ancora attraccate all'imbar-

cadero. Certo il prezioso metallo era camuffato ed era passato sotto

altra veste. L'importazione dell'oro non è libera, e se l'avevano con-

trabbandato in Germania avevano trovato qualche sistema. Un

progetto mi stava spuntando in testa. Qualora fossi riuscito ad effet-

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tuarlo, non solo avrei dato un colpo duro a quei bastardi, ma avrei

reso impossibile anche il recupero dei lingottoni!

Mi fermai un attimo quando arrivai nella immensa anticamera

del castello, e rimossi dal muro una pesante ascia da guerra, ta-

glientissima. La cosiddetta "stella del mattino" in fondo mi aveva

servito, non foss'altro che a ritardare la cattura e a metter fuori com-

battimento un po' di uomini, il che non era poco. D'accordo,

Dreissig ne aveva parecchi, ma grazie a me le file si erano assotti-

gliate mica male. Ora mi occorreva qualcosa di quieto ed efficiente.

L'ascia — che dopotutto era pure il simbolo glorioso della mia a-

genzia — mi sarebbe stata utile. Dopo l'exploit del mattino con la

palla chiodata cominciavo a nutrire un certo rispetto e una certa

simpatia per questi vecchi attrezzi da guerra.

Tutto sommato mi dissi che era meglio uscire dalla porta prin-

cipale. Quelle posteriori erano guardate a vista, come avevo

constatato, dagli uomini che aspettavano di trasferire l'oro in canti-

na. Dato che il trapasso non era ancora avvenuto, quelli dovevano

essere ancora là. Sul fronte anteriore invece c'era soltanto una senti-

nella. Le scivolai alle spalle quieto quieto e mollai un bel colpo

d'ascia. Fu una cosa rapida e silenziosa. Buttai la mia vittima nel

fossato, ma prima la liberai di una comoda spada che teneva infilata

alla cintola.

Mentre filavamo giù verso l'imbarcadero e il molo d'attracco,

mi dissi ancora una volta che grazie a me le forze di Dreissig si era-

no ridotte in modo notevole. Mi sentivo sempre orgoglioso del

lavoro ben fatto. Adesso che aveva pochi uomini, Mister Trenta era

costretto ad usarli con una certa economia. Un gruppetto stava di

pattuglia attorno alla proprietà nella speranza di catturare Lisa, e per

il momento non mi avrebbe dato noia. Un altro gruppetto era stato

eliminato dal sottoscritto e di fastidi non ne avrebbe procurato mai

più. Inoltre quella brava gente era convinta che Lisa fosse riuscita a

fuggire e che io me ne stessi ancora incatenato alla parete. Non era-

no dunque all'erta. Io però calai giù con la massima cautela. Sentivo

di avere il successo a portata di mano e non volevo buttare tutto

all'aria con qualche imprudenza proprio ora.

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Le chiatte erano attraccate al molo. Si vedevano a una certa

distanza dondolare dolcemente sul fiume. Sogghignai quando le

mostrai a Lisa e dissi:

— Ecco, è proprio "L'oro del Reno"!

Vidi solo quattro arabi che passeggiavano su e giù. Forse gli

altri due erano andati a coricarsi da qualche parte.

— Adesso strisciamo sullo stomaco — sussurrai a Lisa. —

Prima di lanciarci all'attacco dobbiamo portarci il più vicino possi-

bile. Meno male che non c'è la luna.

Procedemmo silenziosi come serpi, adagio adagio, un centi-

metro alla volta. Quando arrivammo a pochi metri dall'imbarcadero

le tesi l'ascia.

— Con questa dovete tagliare le gomene che legano le chiatte

alla bitta d'ormeggio. Non guardate quel che farò io. Cercate solo di

recidere la corda e di mettere in libertà le due imbarcazioni.

Aspettai che l'arabo più vicino mi voltasse le spalle per diri-

gersi verso prua, e feci un balzo. Impugnavo la spada che avevo

portato via alla sentinella in camicia bianca. Non appena i miei tal-

loni toccarono il legno della chiatta, mi avventai sull'uomo e riuscii

ad abbatterlo senza far chiasso. Rimase là sul ponte, immobile. Il

secondo arabo si volse, mi vide, fece per reagire in qualche modo

ma non gliene lasciai il tempo. La mia lama fece un volo e andò a

conficcarsi nel petto. Lui barcollò, cercò di sfilarsela dalle carni con

tutte e due le mani, ma non vi riuscì. Lo afferrai prima che precipi-

tasse, lo adagiai sul ponte e recuperai la spada che mi serviva

ancora.

Il terzo, come avevo immaginato, dormiva sodo sulla traversa

di poppa. Non si svegliò neppure, ed io feci in modo che non si sve-

gliasse più.

Mi pervenne la eco dei colpi d'ascia che Lisa sferrava alla

gomena robusta, e sentii infine che la chiatta cominciava a muover-

si, quando l'ultimo filamento si spezzò.

Anche i tre arabi dell'altra imbarcazione avevano sentito e s'e-

rano voltati a guardare. Lanciai la spada con la massima cura. Non è

facile un colpo del genere da lontano, ed io non ero un esperto. Tut-

tavia ce la misi tutta e riuscii a cogliere uno degli arabi in pieno

petto. Lo vidi cadere in avanti. Gli altri due preferirono non correre

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troppi rischi. Si tuffarono nel fiume, poi scesero a riva e filarono a

tutta birra su per il pendio, in direzione del castello. Non feci nulla

per fermarli. Balzai giù dalla chiatta proprio mentre Lisa dava l'ul-

timo colpo all'altra gomena. Subito la vidi staccarsi dal molo e fare

un mezzo giro su sé stessa.

Lisa recise la prima corda dell'altra chiatta. La raggiunsi, le

tolsi l'ascia di mano e feci un taglio netto e rabbioso alla seconda,

che si spezzò subito.

— Esibizionista! — commentò.

Sorrisi, e guardammo insieme l'Oro del Reno che si allontana-

va quieto quieto sulle acque placide.

— E adesso cosa succederà? — mi domandò Lisa.

— Verranno trascinate dalla corrente per un bel po': ad un cer-

to punto inciamperanno in qualche ostacolo, andranno a sbattere in

qualche ansa, o finiranno contro un altro molo, o addosso a una

nave, magari. Ma potete star certa che qualche bravo Burgher chia-

merà la polizia fluviale. Quando il cargo verrà esaminato ci sarà

davvero una bella sorpresina. Si troveranno in possesso di cinque o

sei milioni di marchi in lingotti d'oro. E la parte più divertente è che

né Dreissig né Ben Mussaf oseranno reclamarlo. Dovrebbero af-

frontare troppe domande imbarazzanti, e non hanno certo voglia di

farsi denunciare e arrestare per contrabbando.

Lisa sogghignò.

— Perfetto!

— Adesso debbo tornare al castello, perché ho un lavoro da

completare e non mi piace lasciar le cose in sospeso.

Manco a dirlo, Lisa volle seguirmi. Finii col trascinarmela

dietro perché tutto sommato non mi fidavo troppo a lasciarla sola,

con tutti gli uomini in giro che la stavano cercando.

Lo seppi solo dopo, ma frattanto nel vecchio Schloss la situa-

zione aveva già cominciato a precipitare. I due arabi della chiatta si

erano precipitati da Ben Mussaf e gli avevano raccontato l'accaduto.

Subito lo sceicco era andato a cercare Dreissig con la bava alla boc-

ca.

— Maledetto pasticcione! — aveva gridato al Profeta. — Non

siete che un incompetente, e basta un nulla... Vi porto qui dei milio-

ni in oro, e li gettate via! Come avete permesso che quei... Si tratta

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solo di due agenti, un uomo e una ragazza. Eppure sono riusciti a

buttare all'aria tutto!

— L'uomo è una delle spie più pericolose d'America — aveva

ribattuto Dreissig nel tentativo inutile di giustificarsi.

— Ma è pur sempre un uomo solo! — aveva tuonato Ben

Mussaf furibondo. — E voi pretendereste di capeggiare una campa-

gna contro Israele? E pretendereste di unire il mondo arabo sotto la

vostra guida illuminata? Pretendereste di passare alla storia come un

genio politico e militare? Dopo ciò che è accaduto non lo ritengo

possibile, ormai. Se è così che dirigete le operazioni in casa vostra,

non siete proprio il tipo adatto a portare alla vittoria contro gli ebrei

la mia gente !

— Non avete il diritto di parlarmi in questo modo — s'era

messo a strillare Dreissig.

— Invece ho il diritto di far quel che mi pare, e la prima cosa

che farò sarà quella di ritirarmi subito dall'avventura che mi avete

prospettato. Non ho più fiducia nella vostra abilità.

— Non crediate che vi permetta di ritirarvi adesso — aveva

sibilato Dreissig con voce minacciosa. — Di oro ne avete ancora, e

tanto.

— Certo, e lo terrò da conto per qualcosa di più serio. Voi sie-

te un buffone !

A questo punto Dreissig aveva chiamato un paio di guardie in

camicia bianca e aveva ordinato:

— Arrestatelo. Portatelo nella torre e chiudetelo dentro sino a

nuovo ordine.

— Siete anche pazzo! — s'era messo a strillare Ben Mussaf

mentre le guardie lo trascinavano via.

— D'accordo, e voi siete il mio ostaggio. Che ve ne pare? Vi

terrò qui prigioniero sino a quando non avrò ricevuto l'oro che mi

serve. Avete dei figli al vostro paese, no? Pagheranno. E pagherà

anche la vostra gente.

Quando Lisa ed io arrivammo al castello non sapevamo nulla

di ciò che era accaduto tra i due ex-complici che adesso erano di-

ventati nemici. Penetrammo attraverso il fossato asciutto e trovam-

mo una porta priva di sentinelle. Ci rifugiammo ancora una volta in

cantina, e tendemmo l'orecchio. La notizia si era già diffusa tra gli

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uomini e veniva commentata a gran voce. A noi non rimaneva che

ascoltare, e ascoltammo.

— E' scoppiato qualche guaio nei giardini dell'Eden — com-

mentai. Lisa ridacchiò, e insieme ci avventurammo lungo un

corridoio. Volevo balzare addosso a Dreissig, però intendevo mette-

re prima Lisa in un posto sicuro. Aveva già corso abbastanza rischi.

Tutto andò di traverso per colpa di un topo, un autentico topo

a quattro zampe. Era grosso, grigio, con una faccia da carogna. Ci

passò davanti tranquillo. E Lisa ebbe la tipica reazione di tutte le

femmine che vedono un roditore: strillò. Poi si rese conto subito di

averla fatta grossa e ammutolì di colpo. Ma ormai era troppo tardi.

Il suo strillo acuto echeggiò per tutto il castello.

Ben presto udii i passi che si precipitavano giù. Fui costretto

per una volta tanto a scordarmi della cavalleria. Se ci avessero riac-

ciuffato tutti e due, non ci sarebbe più stata alcuna speranza, né per

me né per lei. Tra i due mali mi toccava quindi scegliere il minore.

Abbandonai la mia compagna al suo destino, ripromettendomi di li-

berarla più tardi – se tutto andava come speravo – e mi arrampicai

sulla finestrella con un balzo acrobatico, passando dall'altra parte.

Udii gli uomini che arrivavano, acciuffavano Lisa e se la portavano

via. Ero rimasto infatti appeso con le mani al telaio di ferro. Aspet-

tai un po', e quando le dita cominciarono a intorpidirsi mi calai giù.

Volevo fare una chiacchieratina amichevole con Dreissig. Il

fatto che avesse avuto la faccia tosta di catturare Ben Mussaf e di

far uccidere i suoi due aiutanti arabi mi provava una volta di più

quanto fosse pericoloso quell'individuo. Non solo pericoloso per la

sua sadica crudeltà, ma per la sua instabilità mentale. Sì, era matto

da legare e andava messo fuori combattimento al più presto. Di Lisa

mi sarei occupato dopo. Prima di farle del male avrebbero conferito

con il capo, comunque.

Andò a finire che trovai l'uno e l'altra nello stesso tempo.

Stavo percorrendo il corridoio del primo piano che conduceva

allo studio di Dreissig, e mi trovavo vicino alla porta chiusa, quando

udii il grido di Lisa. Entrai senza bussare e vidi che il tedesco aveva

rovesciato la ragazza sul divano e le stava addosso. Le aveva strap-

pato per l'ennesima volta i vestiti e la schiacciava con tutto il suo

peso. Una sola delle sue zampacce bastava a tenerle imprigionati i

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polsi dietro la schiena. Come piombai dentro lui si volse di scatto,

poi balzò su e con uno strattone afferrò Lisa e se la mise davanti al

corpo, servendosene come scudo.

Scivolò dietro lo scrittoio camminando all'indietro, sempre

proteggendosi con la ragazza. Afferrò un tagliacarte e tornò verso il

centro della stanza. Mi aspettavo quella mossa e mi ci preparai.

Dreissig infatti mi gettò addosso Lisa, convinto che l'avrei agguan-

tata trovandomi in posizione di svantaggio. Invece io guizzai da una

parte, presi Lisa per un braccio e basandomi sul principio della for-

za centrifuga la feci piroettare sino al divano. Il tuffo che Dreissig

eseguì con il tagliacarte in mano mi trovò pronto. Mi abbassai ful-

mineo, poi gli afferrai il polso e glielo torsi. Strillò come un'aquila,

mollò l'arma e andò a sbattere contro la parete. Rimase stordito solo

per un attimo, poi si rialzò per avventarmisi contro. Lo aspettavo, e

gli diedi il benvenuto con un diretto che lo spedì nel corridoio. Gli

corsi dietro senza perder tempo. Ancora una volta lo vidi rimbalzare

come una palla di gomma e indietreggiare piano piano verso una

parete tutta decorata di attrezzi medioevali come l'atrio di sotto. In-

dovinai quel che stava per fare e mi tuffai, abbrancandolo per le

ginocchia. Lui mi riempì di pugni la scatola cranica e mi fece vede-

re stelle e fuochi d'artificio.

Si liberò dalla mia stretta, mentre io cadevo a faccia in giù sui

lastroni di pietra. Sentii che staccava dalla parete qualcosa e trovai

la forza di rotolare su me stesso. Appena in tempo. Si era imposses-

sato di una lunga alabarda e aveva cercato di colpirmi, ma era

riuscito soltanto a scalfire il pavimento. Mi rimisi in piedi ed evitai

ancora per un pelo la lama che mi veniva tirata addosso. Lui se la

infilò sotto il braccio, aspettando l'occasione buona di beccarmi.

Arretrai verso la parete per dargli l'impressione di avermi messo

con le spalle al muro.

Caricò come un toro infuriato e io feci un guizzo. Riuscì a

lacerarmi un pezzo di camicia senza provocare altri danni. Stavolta

però fui lesto ad agguantare l'alabarda quando rimbalzò sui lastroni.

La torsi e la strappai di mano al mio avversario. Era troppo scomo-

da da manovrare, lunga e pesante. La lasciai cadere e mi buttai

addosso al bestione.

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Aveva il volto contorto e digrignava i denti proprio come un

animale, adesso. Mi allungò un destro ma lo parai con un saltello; a

mia volta tentai di mollargli un sinistro ma vidi che sapeva il fatto

suo come pugile. Ma non ero lì per sollazzarmi con un match pro-

lungato. Volevo far presto a stenderlo perché sapevo che non c'era

tempo da perdere.

Mentre picchiavo e paravo mi domandai perché i suoi bravi

non erano ancora accorsi. Dopotutto la battaglia si svolgeva in cor-

ridoio, e avrebbero dovuto sentirci. Approfittai di un attimo in cui

aveva la guardia abbassata per sparargli un sinistro fulmineo nelle

costole. Lo vidi barcollare con una smorfia e girarsi da un lato. Gli

afferrai il braccio che stava per scattare ed evitai così un pugno

massacrante. Continuai a torcergli il sinistro e a martellarlo senza

misericordia con l'altra mano. Infine crollò sulle pietre e rimase

immobile.

Me ne stetti un po' lì a guardarlo, poi gli girai il capo a destra

e a sinistra. Niente, sembrava morto. Non aveva nulla di rotto, in

apparenza. Era dunque svenuto.

Mi volsi perché avevo udito un fruscio, e vidi Lisa sulla porta

dello studio. Ancora una volta si era rimessa pantaloni e golfino

rosso. Stava diventando davvero una spogliarellista esperta e velo-

ce. Guardandola notai che spalancava gli occhi e la bocca per

mettermi in guardia. Capii al volo e feci uno scarto senza neppure

voltarmi. Evitai così di stretta misura il pugno che Dreissig mi stava

lanciando. Evitai il pugno ma non il peso della sua persona, che mi

venne addosso trascinata dalla forza di gravità. Caddi all'indietro e

cercai di divincolarmi per atterrare almeno sul dorso. Quel porco

era tutt'altro che svenuto. Aveva finto per cogliermi di sorpresa, e se

non fosse stato per il muto avvertimento di Lisa, mi sarei trovato a

mal partito. Mi si avventò contro e ancora una volta mi difesi con

un calcio secco allo stomaco. Mi pervenne lo scricchiolio delle sue

costole spezzate, quando il mio piede le raggiunse. Si rovesciò

all'indietro. Mi alzai di scatto per avere il sopravvento. Non gli

avrei più permesso di prendermi per il bavero con le sue finte. Gli

sferrai un diretto così potente da farlo piroettare su se stesso. Cercò

di coprirsi, ma fui più svelto di lui e gli allungai un sinistro, poi

subito un altro diretto alla mascella. Anche stavolta sentii l'osso che

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si frantumava. Si abbatté all'indietro ancora e cadde con tutto il suo

peso. Rimase là con la faccia tutta contratta dal dolore, e vidi che

alcune gocce di sangue gli uscivano dalle labbra.

Stupito mi avvicinai, lo afferrai per la camicia e lo sollevai.

L'alabarda si sollevò insieme al suo corpo e capii cos'era accaduto.

Piombando proprio con la schiena sulla lama tagliente dell'arma,

aveva finito con l'infilzarsi da solo. Heinrich Dreissig era morto. La

Fenice del nazismo era morta con lui, e al mondo era stata rispar-

miata l'umiliazione di farsi governare da un pazzo di nome Trenta.

Mi stavo ancora domandando come mai nessuno dei fedeli del

fanatico si era fatto vedere per dare una mano al nuovo Führer,

quando mi pervenne alle nari un tremendo puzzo di bruciato. Guar-

dai Lisa. Aveva gli occhi spalancati. Anche lei si era accorta dell'o-

dore e si stava allarmando. In fondo al corridoio, dove c'era la scala,

qualche spirale di fumo cominciava già ad arrivare dal piano infe-

riore. Corsi là e mi affacciai a guardar giù. Vidi subito le lingue di

fuoco e mi accorsi che tavoli, sedie ed altre suppellettili erano state

ammucchiate insieme in un canto per alimentare le fiamme. Anche i

vecchi tendaggi e gli stendardi appesi al muro erano delle prede

facili. Con i mille spifferi che soffiavano da ogni parte, in quella co-

struzione antica e piena di correnti d'aria, l'incendio avrebbe fatto

anche troppo presto a svilupparsi, Tra breve il fuoco avrebbe rag-

giunto ogni angolo.

Ora compresi perché non era apparso nemmeno uno degli

uomini di Dreissig. Evidente che il capo aveva ordinato loro di dar

fuoco al castello.

Possibile che non mi fossi sbagliato quando mi aveva sfiorato

il sospetto – subito messo da parte – che il fanatico imitasse il suo

idolo anche nel finale alla Götterdämmerung? Ci ripensai, ma poi

scossi il capo. No, c'erano troppe stonature in quella teoria. E il con-

trosenso più lampante era quello di aver fatto rinchiudere lo sceicco

Ben Mussaf allo scopo di tenerlo come ostaggio per farsi mandare

altro oro. Non era possibile che subito dopo decidesse di mandare

all'aria tutto in una gloriosa fiammata.

Tornai da Lisa e le domandai:

— Ha detto nulla, Dreissig, quando vi ha portato qui? Nulla di

significativo?

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— Be', ha affermato che intendeva violentarmi prima di an-

darsene.

— Prima di andarsene, eh? — ripetei. — Ciò dimostrerebbe

che non aveva la minima intenzione di fare la morte del bonzo. Mi

pareva bene. Ha detto altro?

— Quando mi è... quando stava...

— Coraggio, lasciamo perdere la pudicizia! E' importante! —

gridai.

— Quando mi si è buttato addosso per... insomma, per fare ciò

che intendeva fare, ha borbottato che gli sarebbe piaciuto portarmi

via con sé, ma che gli sarei stata d'impaccio. Ha anche soggiunto

che aveva già abbastanza guai con l'arabo e con le aquile.

Adesso cominciavo a scorgere qualche spiraglio di luce. Chia-

ro che Dreissig si era reso conto di quanto fosse diventato poco

sicuro il vecchio Schloss ormai. Troppi gli sbagli, troppe le perdite

umane tra i suoi uomini, troppi i rischi di venir acciuffato prima o

poi dai fedeli di Ben Mussaf. Così aveva deciso di chiudere il capi-

tolo castello con un bell'incendio e di farsi credere morto tra le

rovine. Invece aveva ben altro in mente. In realtà intendeva scappa-

re con il suo ostaggio, tenerselo ben stretto e iniziare l'operazione

ricatto da qualche altra parte.

Lisa cominciò a tossire, e sentii anch'io un certo prurito in go-

la. Il fumo stava diventando insopportabile e ci soffocava. E se

tardavamo un altro poco a tagliare la corda, tra breve le cose sareb-

bero peggiorate ancora. Non c'era alcuna speranza che l'incendio si

spegnesse da solo. Se Dreissig aveva deciso di fuggire, certo s'era

già preparato una via d'uscita in anticipo. Non era tipo da abbando-

narsi al caso.

Risospinsi Lisa nello studio e le raccomandai:

— State qui e tenete la porta chiusa. Vado a prendere Ben

Mussaf.

Mi legai un fazzoletto attorno al viso e salii le scale avvilup-

pate nel fumo. Era molto denso, e sentii i polmoni che minacciava-

no di scoppiare. Il caldo s'era fatto intollerabile. Però man mano che

mi avvicinavo alla torre mi resi conto che lassù la situazione era

meno disperata. Ma purtroppo era solo questione di tempo.

114



Trovai la porta della cella e sbirciai dentro da una feritoia. Vi-

di Ben Mussaf e vidi la sua espressione preoccupata. Tirai il

catenaccio e gli feci segno di uscire. Schizzò subito fuori senza farsi

pregare.

— Dreissig è morto — gli comunicai. — E il castello sta per

diventare un gigantesco braciere. Se non trovo una via d'uscita, cre-

do che ci faremo arrostire a puntino. Comunque venite con me.

L'arabo assentì. Nei suoi occhi vidi un misto di gratitudine e

di apprensione. In quei pochi minuti il fumo s'era fatto più denso

anche lassù, e il caldo più soffocante. Comunque riuscii a scendere

di nuovo la scala, a percorrere il corridoio annaspando e a raggiun-

gere la porta dello studio in cui s'era rifugiata Lisa. Aveva tenuto

chiuso e là dentro il fumo era più sopportabile. Per lo meno si pote-

va respirare e parlare. Ma non c'era tempo da perdere lo stesso. Da

un momento all'altro potevamo restare in trappola anche lì, e fare

una morte tutt'altro che auspicabile.

— Dreissig intendeva tagliar la corda da qui — dissi. — Ciò

significa che quassù ci dev'essere qualche uscita segreta, e dobbia-

mo trovarla alla svelta.

— Ma può trovarsi da qualsiasi parte! — protestò Lisa. —

Come si fa a cercare, con questo fumo? E poi non sappiamo nem-

meno da che parte cominciare a...

— D'accordo, potrebbe trovarsi da qualsiasi parte — ripetei

tra un colpo di tosse e l'altro. — Ma io sono convinto che il passag-

gio non è lontano. Avete detto che lui voleva portarsi dietro Ben

Mussaf e le sue aquile, no? Ciò significa che gli uccelletti li a-

vrebbe raccolti passando... Andiamo un po' a vedere. Esiste una

vaga possibilità, e non ci rimettiamo nulla se guardiamo.

Aprii la strada e percorsi il corridoio gattoni. Non era un gran

miglioramento, ma con la faccia raso terra soffocavo un pochettino

meno. Del resto il cammino da fare era breve. E meno male, perché

anche i lastroni di pietra scorticavano la pelle, tanto bruciavano.

Immaginai che ci restassero solo pochi minuti prima che l'intero

castello divampasse, e noi con esso. Bisognava ad ogni costo trova-

re quella dannatissima uscita segreta!

Arrivai infine davanti alla porta della stanza in cui erano

custodite le aquile e constatai con sollievo che era chiusa. L'aprii e

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mi infilai all'interno. L'aria era ancora abbastanza respirabile, grazie

all'uscio massiccio di quercia. Le pareti erano ingombre di gabbie,

cassette e arnesi da caccia e da addestramento, ma ce n'era una libe-

ra. Notai che era decorata da una serie di pannelli di legno

sormontati da una mensola di pietra.

La mostrai a Lisa.

— Vediamo di tastare ogni centimetro di quei pannelli, e se

qualcosa si muove...

Ben Mussaf si unì ai nostri tentativi e anche lui pigiò la parete

con i polpastrelli.

All'improvviso, mentre Lisa stava premendo l'angolo inferiore

di uno dei pannelli, la parete scivolò di lato e mostrò un'apertura.

Ancora una volta avanzai per primo e feci strada. Mi inoltrai

per un corridoio angusto in discesa, tutto curve e gomiti aspri.

Anche là dentro le pareti scottavano e si aveva l'impressione di sof-

focare, ma più per il calore che per il fumo. E perlomeno non

c'erano fiamme. Il passaggio segreto doveva risalire al medioevo

pure lui, perché non si poteva dir comodo da percorrere. Né pote-

vamo affermare di procedere per la retta via. Infine scorsi davanti a

me una porticina. La toccai prima di aprirla, per tastarne la tempera-

tura. Per quel che ne sapevo io, avrebbe anche potuto aprirsi su una

stanza in fiamme, il che ci avrebbe riportato al punto di prima. Ri-

cordai ai miei compagni che secondo i suoi calcoli Dreissig avrebbe

dovuto filar via già da un pezzo, se non fossi intervenuto a sconvol-

gergli i piani.

Ma la porta era abbastanza fresca. L'aprii con una spinta e mi

trovai in un locale che sembrava una legnaia. Notai un altro uscio

nella parete di fronte, andai a spalancarlo, e l'aria fresca della notte

mi accarezzò le guance.

Scivolammo fuori tutti e tre con un sospirane di sollievo. Vidi

che il passaggio sotterraneo ci aveva portato lontano almeno un cen-

tinaio di metri dal castello.

Quando ci voltammo a guardare lo spettacolo, Lisa mi afferrò

la mano e la strinse. Il vecchio Schloss fiammeggiava tutto, ormai, e

il fuoco usciva dalle finestre e dai merli delle torri. Sembrava che

un esercito del medioevo lo avesse assediato a lungo, poi distrutto.

E in un certo senso era vero. Anche se ci trovavamo nell'evo mo-

116



derno, un esercito di idee vecchie e superate aveva occupato quel

castello anche troppo a lungo. Idee insensate e svalutate su popoli

superiori e miti razziali, colpe ereditarie e inimicizie collettive.

— Dove avete parcheggiato la macchina? — domandai a Lisa.

Poi scoppiai a ridere e lei mi fece eco. Sembrava che fossimo usciti

da un cinema dei dintorni e ci accingessimo a tornare a casa tran-

quilli.

— Laggiù, in fondo alla strada — mi rispose infine la ragazza.

— Andiamo a vedere se c'è ancora.

Mi volsi a guardare Ben Mussaf, che mi restituì un'occhiatina

perplessa.

— Vi debbo la vita — disse — e ve ne sarò grato. Ma mi ren-

do conto di essere vostro prigioniero.

Già mi ero domandato cos'avrei fatto a questo punto, ma non

ci avevo riflettuto gran che perché non ero sicuro che me la sarei

cavata. Adesso ci ripensai. Non avevo alcun diritto legale di tratte-

nere Ben Mussaf, dato che mi trovavo anch'io in un paese straniero.

Nulla mi avrebbe impedito di denunciarlo alla polizia tedesca, però,

per cospirazione e anche complicità in omicidio. Ma non ero abba-

stanza interessato in una soluzione del genere. Evitavo come sempre

i contatti con la polizia, in base ai paterni consigli del mio capo. No,

meglio lasciarlo perdere. Se non altro gli avrei fatto vedere che noi

occidentali sapevamo essere generosi, disposti a perdonare e dimen-

ticare. Del resto la lezione cha aveva ricevuto dall'amico Dreissig

gli sarebbe bastata per un pezzo.

— Siete libero, per quanto mi riguarda — gli risposi.

Mi guardò sbalordito.

— Libero?

— Vi do un consiglio, comunque. La prossima volta cercatevi

dei compari più simpatici e delle cause più ragionevoli. Avete fre-

quentato delle brutte compagnie sinora. Ci sono tanti bravi ragazzi

ebrei che abitano vicino a voi. Perché non vi mettete a giocare con

loro, tanto per cominciare a stabilire qualche rapporto di buon vici-

nato?

Ben Mussaf non disse nulla, ma capii che aveva ricevuto il

messaggio. Si inchinò, poi girò sui tacchi e filò via.

117



Presi Lisa per mano e scesi in cerca della macchina. I bravi di

Dreissig ormai si erano dispersi, sicuri di riunirsi al più presto al ca-

po. Be', avrebbero aspettato un pezzo. Comunque non valeva la

pena di cercare neanche loro. Tanto quel tipo di gente non si estin-

gueva mai, purtroppo. I fanatici e gli ignoranti hanno sempre

bisogno di un padrone da servire. Non sanno usare la libertà, perciò

non ne sono degni.





10


Arrivammo a casa della zia di Lisa e trovammo sul tavolo un suo

biglietto che diceva:



"Cara Lisa, Frau Schützen mi ha invitato per

qualche giorno nella sua casa di campagna. Non

vedendoti ritornare, ho deciso di andarci. Sarò

di ritorno venerdì, nel pomeriggio.

Zia Anna."



— Siete alloggiato da qualche parte? — mi chiese la ragazza.

— Certo. Proprio in questa casa.

Mi guardò con quell'espressione mezza contegnosa e mezza

divertita, poi disse:

— A dire il vero non so se posso fidarmi.

— Niente paura — ribattei con un sorriso. — Con me vi tro-

verete al sicuro. Almeno sino a quando sarete voi a pretenderlo...

Ci pensò su, e infine acconsentì ad ospitarmi.

Si diede una stiracchiatina.

— Vado a fare una doccia. Ho bisogno di ripulirmi un po'. Mi

sembra di essere una sorta di speck affumicato.

— Mi prenoto per il secondo turno, e intanto che fate toilette

telefonerò al mio capo in USA. Non spaventatevi, addebiterò la

chiamata a lui. Non voglio mandare in rovina né voi né vostra zia.

La osservai allontanarsi verso la camera da letto, i piccoli seni

arroganti, vivi e deliziosi che si agitavano un po' sotto il golfino ros-

so. Non aveva certo bisogno di quel reggipetto abbandonato

sull'erba del praticello...

118



Poi andai a sedermi accanto al telefono e feci la mia chiamata

a Hawk. Non ebbi subito la comunicazione con Washington; feci in

tempo a farmi una buona doccia anch'io e ad asciugarmi prima del

lungo trillo dell'interurbana.

Frattanto Lisa mi aveva preparato anche il letto e aveva prepa-

rato la turca per lei. Stavamo appunto discutendo sulle nostre due

reciproche sistemazioni quando arrivò la linea con Washington.

— Erano gli arabi dissidenti a finanziare Dreissig — lo infor-

mai subito. — In particolare un certo Ben Mussaf. Abdul Ben

Mussaf, sceicco pieno di grana.

— Avete detto "finanziavano"? — mi domandò il vecchio con

il solito tono asciutto. Però riuscì a sottolineare il tempo passato con

una sfumatura impercettibile ma significativa.

— Già. Adesso Dreissig è andato a raggiungere i suoi antena-

ti, e Ben Mussaf ha raccattato le sue cicche ed è tornato a casa. Oh,

a proposito, c'è un'altra cosetta. La Germania Occidentale si sta ar-

ricchendo di un milione di dollari circa in lingotti d'oro. Vanno

raminghi lungo il Reno, su due chiatte alla deriva.

— Bel colpo, Numero Tre — commentò il vecchio Hawk. —

Avete superato voi stesso e ne sono compiaciuto. Meritate un po' di

vacanza, ora. Domani riposatevi pure. Vi aspetto qui tra un paio di

giorni.

— Domani? — gli feci eco. — Per carità, non datemi troppi

vizi, mi guasterei. Tre o quattro ore sono più che sufficienti, vi assi-

curo che il mio è stato più uno svago che un lavoro, e non...

Se ne stette quieto per un po' ma decise di non redarguirmi per

il sarcasmo. Dopotutto ero tornato vincitori

— Va bene — bofonchiò infine. — Quando intendereste rien-

trare? O meglio, quando sarete sazio di lei e quindi disposto a

tornare?

— A fine settimana e mai, nell'ordine. — Non volevo che

Lisa si inorgoglisse troppo.

— D'accordo, ma a fine settimana guardate di essere qui dav-

vero. O perlomeno a casa. Può darsi che abbia qualcosa di impor-

tante per voi.

Riappese, ed io mi volsi a guardare Lisa.

119



— Sono libero sino a sabato, e poi debbo tornare a Washin-

gton — le annunciai.

— Ma da questa casa ve ne andrete venerdì — precisò la ra-

gazza. — Prima che zia Anna rientri. Non vogliamo farle venire un

colpo, eh?

S'era infilata una vestaglia azzurra, piuttosto leggera, e si in-

dovinava che sotto non portava nulla. Con un altro tipo di donna

avrei interpretato a modo mio quel deshabillé e mi sarei fatto sotto.

Ma era difficile indovinare come avrebbe reagito Lisa. Che era bella

l'ho già detto, che era desiderabile pure. La trovavo inoltre piacevo-

lissima e stimolante. Senza contare che – nonostante la rabbia del

primo momento – mi ero sentito commosso dal rischio che aveva

corso per venirmi in aiuto al castello. Alla fine si era dimostrata uti-

le davvero, e certi pericoli condivisi creano un legame che trascende

l'attrazione fisica.

Ma appunto per questo non osavo buttarmi. Mi sarebbe rin-

cresciuto sciupare tutto con un passo falso. E sentivo che con lei era

facile commettere una gaffe. Decisi così di fare il bravo ragazzo e di

non pregiudicare quel simpatico rapporto di amicizia che si era sta-

bilito tra noi.

— Voi dormirete nel letto e io starò benissimo sulla turca. Vi

prego di non fare più discussioni — conclusi in tono deciso.

Lei si alzò obbediente e si avviò verso la camera. Si volse sul-

la soglia, e la vestaglia si aprì quel tanto che bastava per mostrarmi

una delle sue splendide gambe lunghe. Ma non lo fece apposta; non

se ne accorse neppure. Io invece la rividi correre nuda su quel prato

verde. Anche i quel momento di orrore aveva la grazia di una gio-

vane gazzella.

— Buona notte, Nick — mi disse.

— Sogni d'oro, bellezza — le risposi.

Fu lei a girare l'interruttore di fianco alla porta. Rimasi al

buio, salvo il riflesso di un lampione stradale che delineava la sa-

goma dei mobili nel soggiorno.

M'ero appena coricato e avevo chiuso gli occhi quando udii

l'uscio che veniva riaperto piano piano. Un secondo dopo lei venne

ad inginocchiarsi ai piedi del mio letto di fortuna. Anche nell'oscuri-

tà intuii che non stava sorridendo.

120



— Chi siete, Nick? — mi domandò. — Non avete mai voluto

dirmelo.

Sporsi un braccio e glielo misi attorno alle spalle, attirandola

verso di me.

— Sono un tale che ha una gran voglia di baciarti, bambina

mia — le risposi. — E tu chi sei?

— Una tale che ha una gran voglia di lasciarsi baciare — mi

rispose a sua volta.

Ci aggrappammo uno all'altro come due naufraghi, e la vesta-

glia partì. Le mie dita trovarono i piccoli seni rivolti all'insù. Glieli

avevano malmenati a turno, ma io li accarezzai con la massima de-

licatezza. I capezzoli rosa si eressero subito al contatto delle mie

mani, e capii che non mi avrebbe respinto. Anche le sue labbra

morbide e tiepide mi dissero un sacco di cose, pur senza parlare.

Riassaggiai quella dolcezza di miele che già avevo esperimentato di

sfuggita. Ma stavolta la sua bocca rimase per un bel pezzo incollata

alla mia. Continuai ad accarezzarle le belle spalle nude, l'epidermi-

de di seta. Lei si era inginocchiata ancora ai piedi del divano. La

sollevai per la vita e la feci giacere al mio fianco. Ci stringemmo

uno all'altro con un'intensità che non aveva bisogno di parole.

All'inizio era un po' impacciata, ma le mie carezze esperte ed

estenuanti vinsero ogni riluttanza e scatenarono la passione. Mi si

aggrappò esclamando in un singhiozzo:

— Oh, Nick, Nick! Prendimi, sono tua... Stringimi forte, forte.

Non lasciarmi mai, né stanotte, né domani... Non lasciarmi sino al

momento della partenza. Sta sempre qui con me...

Mi impossessai di lei, e rispose con l'ardore naturale e tenero

della giovinezza. La seconda volta fu ugualmente appassionata,

ugualmente tenera e meravigliosa. Si era liberata ormai da ogni ini-

bizione e si abbandonava con tutta se stessa, senza riserve.

Ad un certo punto ci alzammo per fare uno spuntino. A parte

alcuni brevi intervalli, passammo quei due giorni e mezzo a letto.

Non avevamo altro tempo disponibile, perciò volevamo approfittare

del poco che ci era rimasto. La conversazione intelligente di Lisa e

il suo delizioso senso dell'umorismo aggiunsero un profumo ancora

più speziato ai nostri amplessi. Era una ragazza moderna, indipen-

dente, un po' sofisticata e molto sportiva. Sotto le coltri però di-

121



ventava subito un burro. Un bel panetto di burro impastato col miele

e vibrante di desiderio. E' una similitudine cretina, lo so, ma non

posso farci nulla.

Il venerdì giunse anche troppo presto. Mi decisi a rivestirmi –

non l'avevo più fatto da quando ero arrivato – perché non volevo

che zia Anna mi trovasse in casa sua. Ero molto addolorato di

doverla lasciare. Capitava così di rado di trovare una ragazza piace-

vole anche fuori dal letto... Com'era diversa dalla defunta Helga!

— Che aereo prenderai, domani? — mi domandò quando mi

accompagnò alla porta. Avevo prenotato il posto per telefono duran-

te una breve pausa tra un amplesso e l'altro.

— Quello che parte da Tempelhof alle dieci.

— Verrò a salutarti.

— Ne sarò felice, ma... ti sembra il caso? Voglio dire vederci

all'aeroporto come due estranei, scambiarci delle parole banali...

— Verrò.

Da quando ero arrivato a Berlino Ovest non avevo fatto che

sfruttare le amicizie femminili e non avevo ancora preso una camera

d'albergo. Lo feci per quell'ultima notte, visto che l'alloggio di zia

Anna era off-limits. Inutile dire che continuai a pensare a Lisa. Mi

sarebbe piaciuto che la cosa non finisse lì. Ma era sempre la stessa

storia, purtroppo. Trovavo una donna che mi attraeva, poi scoprivo

che era una nemica che mi complottava alle spalle; o me la vedevo

morire tra le braccia durante una missione pericolosa, o mi toccava

perderla a causa dei miei continui vagabondaggi per il mondo.

Chissà dove mi avrebbe sbattuto Hawk, adesso?

L'indomani mi alzai presto, dopo una nottata insoddisfacente

dal punto di vista amoroso ma riposante per il midollo spinale.

Giunsi all'aeroporto con un anticipo notevole. Era molto affol-

lato, come sempre. Allungavo il collo per cercare Lisa ma non

riuscivo a scorgerla in mezzo a tutta quella gente. Il momento della

partenza si avvicinava ormai, e disperavo di salutarla. Vidi invece la

sua figuretta che veniva verso di me, con uno splendido abito tur-

chese e quell'espressione indefinibile negli occhi.

— Come mai così tardi? — le domandai, quasi con malgarbo.

— Ormai debbo salire a bordo.

122



— Sono stata trattenuta da alcuni impedimenti dell'ultima ora

— mi spiegò affiancandomisi per accompagnarmi all'apparecchio.

Tesi il mio biglietto per il controllo, e vidi che anche lei faceva

altrettanto. Spalancai gli occhi per lo stupore.

— Ma che diavolo... Cosa fai?

— Vado a casa — mi rispose infilando il braccio sotto il mio e

procedendo verso l'aereo.

Mi fermai di botto.

— A casa dove?

Cominciavo ad avere un certo presentimento, ma volevo sen-

tirglielo dire.

— A Milwaukee — mi spiegò tranquilla. — Andiamo, che

qui blocchi il passaggio.

Seguii la sua figuretta lunga e snella che rampava su per la

scala dell'apparecchio. Trovò subito suo posto e mi fece cenno di

mettermi a sedere accanto a lei dando qualche manatina espressiva

al cuoio della poltrona.

— Un momento — dissi, più perplesso che mai. — Che vuol

dire "Milwaukee"?

— E' una città del Wisconsin, capoluogo di contea, alla foce

del fiume omonimo che si getta nel lago Michigan. Circa ottocen-

tomila abitanti, compresi i sobborghi, porto sul lago, università

fondata nel 1881.

— Ma mi avevi detto di essere tedesca!

— Io? E quando? Mai detto nulla del genere! — Sembrava

indignata all'idea che la scambiassi per una prospera Frau o qualco-

sa di simile. A pensarci bene ammisi con me stesso che non aveva

mai affermato nulla di preciso sulle sue origini.

— Diciamo che sono oriunda — mi concesse infine. — Mi

trovavo qui in visita alla zia, come ti ho spiegato sin dal primo gior-

no. Sei stato tu a metterti in mente che venissi da Amburgo o da

Düsseldorf o da Bonn. Invece venivo da Milwaukee.

— Ti ho anche domandato dove avevi studiato l'inglese, per

conoscere così bene lo slang americano!

— E io ti ho risposto che vedo molti films. Anche questa è la

verità, vado spesso al cinema.

— A Milwaukee.

123



— Già. A Milwaukee.

— Hai detto che avevi studiato l'inglese a scuola...

— Infatti. Non sono analfabeta, quindi ho frequentato la scuo-

la.

— A Milwaukee.

— A Milwaukee. — E mi dardeggiò con un sorriso di trionfo,

tutta contenta di avermi sfottuto.

Mi abbattei sul sedile accanto al suo.

— Se questo aereo non fosse così pieno di gente, ti rovescerei

sulle mie ginocchia, e...

— Puoi sempre farlo quando arriveremo a New York — mi

concesse con gli occhi che le danzavano maliziosi. — Ti prometto

di collaborare. Potrai rovesciarmi da tutte le parti e non protesterò.

Ricominciai a sorridere. Non era possibile arrabbiarsi con

quella benedetta figliola! Be', se non altro il volo sarebbe stato

piacevole. E anche il week-end si prospettava splendido, tutto

sommato.





FINE

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